We live in time: it’s okay not to be okay
Il 6 febbraio è finalmente uscito nelle sale italiane We live in time, tradotto come Tutto il tempo che abbiamo, dopo l’iniziale distribuzione prevista per novembre.
La trama è semplice: Almut (Florence Pugh) è una chef pluripremiata, ambiziosa e determinata. Una sera investe con l’auto Tobias, interpretato da Andrew Garfield, ed è proprio da questo incidente che prende vita la loro storia d’amore, ostacolata prima da divergenze sul modo di vedere il futuro, poi dalla malattia di lei, un cancro alle ovaie.
Storia già sentita? Forse. Ma vediamo perché vale la pena di essere raccontata.
Un primo elemento che contribuisce a elevare il film è la narrazione non lineare, ovvero l’assenza di un piano temporale privilegiato: analessi e prolessi si mescolano insieme, il passato si distingue dal presente grazie ai cambiamenti dell’acconciatura e del make-up di Almut, oltre che dalla presenza di Ella, la loro bambina.
La scelta di raccontare la storia in un modo così peculiare non è a caso: quando pensiamo a una persona cara, o anche semplicemente alla nostra vita, difficilmente ripercorriamo gli eventi secondo la loro reale sequenza cronologica. È più probabile che ci si proietti davanti un mosaico emotivo spesso caotico, un’intelaiatura di frammenti sconnessi anche distanti temporalmente ma significativi per noi. Trattandosi proprio di una vicenda delineata da contorni affettivi, questo espediente risulta perfettamente sensato.
Ma la sua funzione fondamentale è un’altra: quella di togliere importanza al finale. L’epilogo si intuisce già dalla metà del film, lo temono i personaggi come gli spettatori; è, in un certo senso, scontato. Questo elemento di prevedibilità, invece di indebolire il racconto, lo rafforza: ora il focus non è più sul quando della fine, ma sul come che la precede. Come scegliamo di riempire il nostro tempo, ben sapendo che è limitato?
La storia tra Almut e Tobias non è certo un amore adolescenziale che può permettersi di concentrarsi solo sulla dicotomia relazione versus malattia, come poteva essere in Colpa delle stelle o in A un metro da te. Qui si tratta di adulti con una famiglia e un lavoro, è una storia di compromessi in cui Almut cerca di convivere col dolore destreggiandosi al contempo con tutti gli altri elementi di una vita adulta.
Emerge allora un altro pregio del film, quello di non cedere alla retorica della lotta che spesso si sente portare avanti riguardo al cancro. Contro il cancro non si può lottare come tra pari, la vittoria o la sconfitta non dipendono solo dagli sforzi del paziente, e la biologia, purtroppo, tende a giocare sporco. Per questo Almut sceglie, nel tempo che le rimane, di dedicarsi a qualcosa che è davvero sotto il suo controllo, a qualcosa che può vincere, perdere o interrompere a suo piacimento. La malattia viene raccontata così non con eroismo o vittimismo – o ancor peggio tramite la lente della resilienza, ma con una sincera compassione.
A voler trovare un difetto, sarebbe stato interessante caratterizzare maggiormente il personaggio di Tobias, che sembra esistere quasi esclusivamente in funzione del suo supporto ad Almut e al suo desiderio di essere padre. Destino insolito, visto che questo trattamento viene storicamente riservato alla controparte femminile. È pur vero che in momenti di crisi di persone care ci si trova, anche nella vita reale, ad assottigliarsi per lasciare spazio al dolore dell’altro, finendo per diventare più o meno volontariamente dei satelliti.
Il fatto che ci venga mostrato un Tobias con gli occhi lucidi per buona parte del film è dovuto non solo alla natura commovente della sceneggiatura, ma quasi sicuramente anche alle vicende personali dell’attore. Oltre a dimostrare sullo schermo, infatti, una grande chimica l’uno con l’altro, Pugh e Garfield hanno elementi di affinità coi personaggi che interpretano. Florence Pugh è figlia di un ristoratore e ha sempre portato avanti la passione per l’arte culinaria, come dimostra il suo informale cooking show Cooking with Flo, cominciato durante il periodo del Covid. Mentre Andrew Garfield ha più volte parlato pubblicamente della sua esperienza col lutto dopo la scomparsa di sua madre, anche lei portatrice di cancro.
In un'intervista con la CNN che consiglio a tutti di recuperare, Garfield ha trattato l’argomento del dolore in modo toccante e davvero ammirevole, e parlando con Stephen Colbert al The Late Show ha dichiarato tra le altre cose: «I hope this grief stays with me because it's all the unexpressed love that I didn't get to tell her».
We live in time è un’ode alla caducità di tutto ciò che ci circonda, un reminder a forte impatto emotivo del fatto che dovremo, prima o poi, andarcene. Questo non deve chiaramente farci piacere, né al contrario gettarci nella disperazione; è piuttosto un dato di fatto intrinseco alla natura umana, di cui Almut prende consapevolezza prima del dovuto.
Il tempo è una costante nella sua vita lavorativa, scandita dai ritmi serrati della ristorazione. Ed è anche, lo si intuisce, il fil rouge del film: “vivere nel tempo” significa sia impegnarsi a guardare all’hic et nunc, cosa che Tobias a volte fatica a fare, sia essere determinati da un timer che non impostiamo noi.
L’arte stessa a cui Almut si dedica, la cucina, è la più impermanente tra tutte, eppure questo non impedisce agli chef di formarsi per anni e anni e dedicare ore a creazioni che verranno consumate nel giro di pochi minuti (ne abbiamo avuto un’ottima rappresentazione in The Bear). Il piatto merita di essere preparato anche se durerà poco, perché il vero significato della bellezza si rivela solo nell’endiadi che sempre la associa alla fragilità; e cosa c’è di più fragile e incerto della vita umana?
L’anelito a voler lasciare un segno prima di andarsene e la paura di finire nel dimenticatoio perdono di significato: quello che resta, quello che conta davvero, è il ricordo che avrà di noi chi ci è stato accanto, e cosa abbiamo saputo insegnare. Ad esempio come rompere un uovo a regola d’arte.
L’A24 ha saggiamente distribuito in alcune sale americane dei fazzoletti al momento dell’uscita del film, e il consiglio è di non dimenticare di portarli.