Wallace & Gromit - Le piume della vendetta: l'importanza della stop motion nel 2025

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Per anni, su Requiem for a Film abbiamo provato in ogni modo a divulgare l’animazione come non più una succursale del cinema in live action, cercando di fare il nostro nel processo che, si spera, aiuterà prima o poi a farla uscire dal ghetto culturale dov’è reclusa – che molto ha a che fare con quello che stereotipa anche fumetto e videogioco – e che vede nei film animati una versione infantile, superficiale, irriflessiva del “vero, tradizionale, cinema in live action”.


E ogni anno che passa, con l’autocoscienza pioneristica e la praticità del pop che la materia ha nella sua storia attraversato, vediamo sempre più film animati portare su schermo soluzioni di storytelling visuale che, anche nel canone, producono immagini nient’altro che stupende nella loro dote non solo estetica, ma soprattutto allusiva: quella gioia tipica di ciò che è gravido di aspettativa, il realistico verificarsi della possibilità.


Perché, se il limite del reale sarà sempre un fardello con cui il cinema in live action dovrà contrattare, l’animazione, anche sul terreno consolidato di tecniche come il 2D classico o lo stop-motion, può trovare soluzioni che provengono da un altrove che non appartiene né a chi guarda, né a chi crea. Un esempio che ha fatto – e che fa tutt’ora – la storia è un cult come I Pantaloni Sbagliati del 1993, uno dei primi e più bei corti di Wallace e Gromit.


I Pantaloni Sbagliati fu l’opera che consacrò la Aardman nel mondo: Oscar per il miglior corto di animazione, successo globale, e da lì via a tutto ciò che ora compone il gotha dello studio di animazione, dai Wallace e Gromit a Galline in Fuga, Shaun vita da pecora o Giù per il Tubo. E il successo non fu dettato dal solo entusiasmo iconografico, ma anche e soprattutto dall’innovazione tecnica: l’inseguimento finale de I Pantaloni Sbagliati, che – come ormai avrete sentito dire riguardo praticamente qualsiasi oggetto di narrazione uscito dagli anni Ottanta in poi – “decostruisce postmodernamente” i canoni dei generi classici, è stato uno dei più grandi, come diremmo noi Gen Z, flex tecnici della storia dell’animazione, e tutt’ora una delle sequenze più belle, se non la più bella, mai creata attraverso la clay animation.


Un’altra intuizione geniale del corto fu il suo antagonista, Feathers McGraw: un pinguino con un guanto rosso in testa a simulare la cresta di un gallo – e già da sé, questa, è strutturazione psicologica da maestri – che si rivela essere uno dei villain più spietati e senza scrupoli di sempre. L’intuizione vincente? L’impassibilità di un volto neutro su un corpo neutro, il vuoto comunicativo dello sguardo di un malvagio fin nei meandri dell’anima, che, inevitabilmente, fa divertire e innamorare per la plateale autoconsapevolezza meta: sfruttare il modellismo, la perdita di sospensione dell’incredulità, a fini iconici. Perché chi non ama Feathers McGraw, evidentemente, non ha mai riso in vita sua.


A 31 anni di distanza – 32, per noi in Italia – la Aardman produce e rilascia tramite Netflix il seguito de I Pantaloni Sbagliati, Le Piume della Vendetta. Facile prevedere il plot: Feathers McGraw torna dal carcere per vendicarsi di Wallace e Gromit, rei di averlo fatto catturare, e per riprendersi il bottino su cui dal 1993 aveva posto i suoi vuotissimi occhi. E per quanto la cosa possa puzzare di quella voglia coatta di guadagno che trasudano loro malgrado tutti i sequel distanziati di un paio di decenni dai capitoli precedenti, vi assicuriamo, questo Wallace e Gromit – Le Piume della Vendetta arriva su (piccolo) schermo a testa altissima.


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Certo, se paragonato a ciò che è stato – tecnicamente, narrativamente, storicamente parlando – I Pantaloni Sbagliati, il confronto è impari. Ma le condizioni in cui questo film esce sono altresì molto diverse dai tempi che furono, e l’obiettivo qui non era nuovamente quello di alzare l’asticella su scala universale, ma quella di fare stop-motion nel 2025, tenere una lezione su una tecnica che, sempre secondo stereotipo, nel suo essere artigianale dovrebbe anche e per questo essere votata all’estinzione. Detto altrimenti: mostrarsi “al passo coi tempi”, tema che, guarda caso, è anche il principale del film stesso.


Difatti le tesi di chi critica il film seguono tutte il filone della “fotocopia autoreferenziale”, nel tentativo di debuggare il discorso sulla tecnologia e l’IA che questo fa: suddette critiche vertono su una supposta ed erronea visione di cui il film è tacciato, che consisterebbe nel manifestare una paura generazionale e senile verso la tecnologia, lanciare un messaggio di allarmismo nei confronti di meccanismi che sembrano sempre più appallottolare l’essere umano in un angolo di obsolescenza, e cercano inconfutabilità nel fatto che, nel lanciare questo messaggio, il film si “venda” alla cupidigia della computer grafica e dell’animazione digitale, abbandonando la più esplicita manovalanza tipica dello stop-motion. Niente di più sbagliato.


Sia perché il film è, in conclusione, equo riguardo le tecnologie – e se il picco drammatico di questo discorso sembra più ingombrante del suo concludersi, i motivi vanno ricercati tanto nel fatto che, con una struttura classica e in tre atti come questa, i pesi di tensione e rilassamento sono per forza sbilanciati a fini narrativi, quanto da un punto di vista del tutto metaforico, dal momento che, a voler essere onesti, il film sembra riflettere il nostro presente e la sua capacità taumaturgica di andare in paranoia e rendere apocalittica qualsiasi alterazione del quieto vivere; e sia perché scegliere, nel 2025, di ibridare una tecnica laboriosa e dispendiosa come la clay animation con altre come la CGI – soprattutto se queste tecniche poi offrono, quando fuse, risultati altrimenti inattuabili – non può e non deve essere motivo di sdegno.


Questo è un film tecnicamente da maestri, e non si può pretendere come unica opzione il capolavoro, il game changer o anche solo (?) la novità assoluta. Certo non si parlerà di capolavoro, ma chi l’ha mai preteso? Struttura, personaggi e temi sono una dichiarazione evidente: non cercate la rivoluzione. Soprattutto perché, tornando al tema dell’inizio, è necessario essere per forza la nuova perla del Ghibli, l’estremo estetico dello Spider-Verse? È questa l’aspettativa media del presente? Cosa vuol dire essere attuali, al passo coi tempi, allora?


Soprattutto perché, a ben vedere, certe scene che all’apparenza sembrano solo di passaggio, così come certi set o la scelta dei punti macchina, beh, sono un qualcosa che la Aardman di 30 anni fa non avrebbe potuto realizzare, vuoi per inesperienza, vuoi per capacità produttive ed economiche. Ma, forse, senza multiversi o altre soluzioni scenografiche, oggi non si riesce più a sopravvivere. Allora non è poi così scontata la condizione di Wallace, accelerazionista, drogato di riviste tech. Così come non dev’esserla quella conservativa di Gromit, a letto mentre legge vecchi classici al lume di candela. 


Wallace e Gromit – Le Piume della Vendetta è un bellissimo film. Perché è semplice, scorrevole, divertente da morire e non pretende niente di più. E avrà anche la pecca del revival, per carità, ma non di meno anche la dote della ponderazione. E, circondati da questa sete di spettacolo, potrebbe non guastare accettare di non cedere all’esaltazione, trovare una ragion d’essere anche nella quiete di una calda, familiare, sbellicante compagnia.