The Smashing Machine - Recensione: La fragilità dei giganti
PRODUZIONE, CAST E CONTESTO
The Smashing Machine è il nuovo film di Benny Safdie, qui alla sua prima regia in solitaria senza il fratello Josh. Prodotto da A24, il film vede Dwayne Johnson nel ruolo di Mark Kerr, pioniere delle Mixed Martial Arts, affiancato da Emily Blunt nel ruolo di Dawn, la sua compagna. Compaiono inoltre alcuni veri protagonisti degli sport di combattimento contemporanei come Olexandr Usyk, che interpretano gli atleti del passato.
Presentato in concorso a Venezia, il film ha vinto il Leone d’Argento alla Regia e ha attirato grande attenzione soprattutto per la trasformazione radicale di Dwayne Johnson: un cambio fisico, professionale e identitario che segna per lui una possibile svolta di carriera.
Safdie, al contempo, riesce a proporre un nuovo immaginario per i film sullo sport, mettendo l’accento sulla storia della persona piuttosto che su quella dell’atleta.
Il film si concentra su pochi anni della carriera di Kerr, dal 1997 al 2000, quando i combattenti non guadagnavano le cifre di oggi.
Viviamo una parentesi della storia di “The smashing machine”. Un atleta che ha spinto il proprio corpo oltre i limiti, imbattibile sul ring ma attraversato da sconfitte interiori, dolori cronici e soprattutto una dipendenza dagli oppiacei che ha segnato in modo irreversibile la sua vita.
Romanzata la sua relazione con Dawn: un rapporto autentico ma fragile, segnato da un temperamento ardente e da profonde gelosie. Ampio spazio è stato concesso al periodo di partecipazione al Pride, la celebre lega giapponese, mostrando un atleta capace di incassare colpi micidiali sul ring, ma incapace di gestire quelli privati, provenienti da se stesso e dal suo modo di vivere.
Safdie punta a catturare la corporeità dei personaggi: cerca di farci percepire le emozioni attraverso un’attenzione chirurgica ai dettagli, accompagnata da una fotografia asciutta, mai edulcorata.
Alterna la vita privata al ring senza gerarchie: i litigi con Dawn pesano quanto i match, e gli uni influenzano gli altri. Ne nasce un equilibrio narrativo instabile ma coerente, un racconto che unisce intimità e violenza professionale attraverso uno sguardo documentaristico, di cronaca.
LA SVOLTA DI DWAYNE JOHNSON
Dwayne Johnson abbandona i ruoli che lo hanno reso celebre: i personaggi monolitici dei blockbuster, connotati da una morale spesso troppo semplicistica.
Per la prima volta il suo corpo - diventando registro delle battaglie vissute e campo di scontro per quelle future - non è più simbolo di potenza.
Questa, forse, è la sua vera occasione di mostrarsi al mondo come attore e non come icona.
È il ruolo perfetto per segnare un passaggio epocale nella sua carriera.
UN SEMIDIO PRIMA FACIE
Il cuore del film è la contrapposizione tra la forza devastante del combattente e la debolezza dell’uomo che vi si nasconde dietro.
Safdie lo filma senza retorica, senza cercare l’epica del film sportivo. Lo cattura per ciò che è: un semidio che diventa umano e fragile una volta sceso dal ring.
Kerr è stato un colosso inarrestabile — uno che non aveva mai dovuto affrontare il pensiero della sconfitta. Ed è proprio l’incapacità di contemplare la caduta a renderlo vulnerabile.
La sua dipendenza dagli oppiacei non è rappresentata come vizio, ma come effetto collaterale sistemico: il risultato di un mondo sportivo che pretende prestazioni assolute, corpi perfetti, resistenza illimitata. È l’avversario che lo batte ogni giorno.
The Smashing Machine non parla di vittorie. Parla delle sconfitte intime, quelle invisibili, quelle che ci fanno perdere la lotta contro noi stessi. Questa è la forza drammatica che traina il racconto e infonde il realismo nell’opera.
RICOMPORRE LE FRATTURE
Una delle immagini guida del film è quella del kintsugi, l’arte giapponese che ripara le ceramiche rotte usando oro liquido. Ciò che è frantumato non può tornare alla propria origine: diventa altro, diventa più prezioso.
Safdie fa esattamente questo con Mark Kerr.
La sua vita è come un corpo frantumato che continua, ostinatamente, a essere rimesso insieme. Le crepe non spariscono: prendono forma, diventano racconto.
Solo attraverso la sconfitta — come ammise Kerr stesso dopo il match con Fujita — arriva finalmente la comprensione.
UN CINEMA ANTI-SPETTACOLARE
Stilisticamente è un film antispettacolare.
L’epica del ring è assente, così come i climax tipici dei film sportivi. Scompare persino il melodramma autodistruttivo alla The Wrestler.
Safdie costruisce un ritratto quasi documentaristico: grazie a questi elementi:
• macchina da presa a mano
• inquadrature vicinissime ai corpi
• sonoro che non esalta ma avvicina all’azione
• montaggio costante, senza enfasi
È un cinema che non vuole farci tifare.
Vuole farci sentire.
La regia diventa così un dispositivo narrativo capace di restituire la fatica del vivere, non la gloria del vincere.
Una delle scelte più radicali del film è l’assenza totale di un vero “momento clou”.
Non c’è il grande match, non c’è il grande crollo. Il dolore non culmina: persiste.
Esattamente come nella vita di un atleta le ferite non esplodono, si accumulano.
È un film che parla di sport senza essere sportivo, i combattimenti sono mero contorno.
Al centro c’è solo l’uomo.
Conclusione – Imparare a perdere
Mark Kerr non era abituato a perdere.
Quando accade, la sconfitta non diventa fallimento ma possibilità di trasformazione.
Safdie ci mostra così un corpo che smette di essere macchina e torna a essere uomo.
E, allo stesso modo, Dwayne Johnson cessa di essere icona e rivela finalmente il suo lato più umano.
The Smashing Machine significa avere la capacità di rialzarsi, accettare l’imperfezione e la possibilità di essere battuti. Significa mostrare il ring come un luogo di verità in cui tutti, prima o poi, dovranno fare i conti con la sconfitta. Mostrare gli atleti per quello che sono, una volto rotto il velo dell’idolatria.
