The Brutalist - La storia di un fraintendimento

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Solitamente non leggo le trame dei film prima di andare a vederli: in fin dei conti non le reputo molto importanti e poi preferisco lasciarmi sorprendere. Ma a Venezia i film in programma sono tanti e il tempo a disposizione è poco, per cui la scelta di vederne uno comporta l'esclusione di un altro.

E allora qualcosa bisogna pur leggere, per poter prendere una decisione: le note di regia. Ma quelle di The Brutalist non davano un grande aiuto in questo senso: «Quando si redige una dichiarazione formale o una nota d’intenti è consuetudine illustrare i temi o l’estetica di un film [esattamente ciò di cui ero alla ricerca], ma dopo quasi un decennio passato a cercare di far partire questo progetto vorrei invece cogliere qui l’occasione per ringraziare tutti e ciascuno dei collaboratori che hanno reso possibile il “film impossibile”. Il mio cast, la mia troupe, la mia famiglia: le parole non bastano».

Che le parole non bastino è vero, in particolare queste del regista Brady Corbet non bastavano a me per decidere se guardare o meno il suo film, considerata anche la sua sostanziosa durata di 215 minuti. Non c'era via di scampo, dovevo leggere la sinossi: «È la storia dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947. Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà, ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita». 

Ora, appena leggo il nome di László Tóth, non ho più dubbi, perché per me non ci sono altre possibilità di interpretazione, è chiaro, evidente, lapalissiano: è un biopic sul tizio che prese a martellate la Pietà di Michelangelo! La storia di un folle che si credeva Gesù Cristo, come avrei potuto perdermela?

Be', le cose non stavano esattamente così: il László Tóth in questione – interpretato da un impeccabile Adrien Brody – non è quello che intendevo io, bensì un personaggio di finzione (per quanto contenga al suo interno molti architetti del Bauhaus realmente esistiti), e questo film non è un biopic (anche se è strutturato come se lo fosse), ma a questa conclusione ci sarei giunta solo una volta uscita dal PalaBiennale. Fino all'ultimo ho aspettato che comparisse sullo schermo er Cupolone di San Pietro, secondo un mio personale arco narrativo perfettamente lineare dato che il progetto architettonico più ambizioso che László si ritrova a progettare è una chiesa. A metà film ho iniziato a nutrire dei dubbi, ma con il viaggio a Carrara che il protagonista compie per cercare dei marmi pregiati le mie speranze si sono riaccese: sono in Italia, László passerà anche da Roma e lì, finalmente, in preda al delirio vandalizzerà la Pietà. E invece niente, nessun martello, nessuna Pietà e nessuna storia vera.

In compenso? Il film più bello di questa edizione di Venezia e forse, senza questo fraintendimento, non lo avrei visto.

Non sono stata la sola a essere vittima di un fraintendimento. Lo stesso protagonista, László Tóth, crede che una volta arrivato in America avrebbe trovato una cosa, e invece trova altro. La differenza tra me e lui sta nel fatto che io ho trovato un tesoro, lui una truffa.

Tóth è un salvato tra i sommersi dell'olocausto che cerca un nuovo inizio in America, rappresentata fin dall'ouverture del film in modo emblematico: con la Statua della Libertà – suo simbolo per eccellenza – a testa in giù. E il contrario della libertà cos'è se non la schiavitù? Un inizio dunque che già preannuncia quello che sarà il percorso di László: un immigrato ungherese che pensa di poter cominciare una nuova vita in America ed esprimere lì, liberamente, la sua arte, mentre in realtà si troverà emarginato, non accettato ma tollerato, e rinchiuso nella prigione dorata di Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un ricco industriale della Pennsylvania che gli permette sì di esprimere il suo talento, ma a un prezzo molto alto.

 

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Il sogno americano, così come la Statua della Libertà, si ribalta e diventa incubo.

The Brutalist ha la caratura di un film epico, ma nei suoi temi è anti-epico, è la Pharsalia americana che ne racconta il disintegrarsi del mito.

Dovrei scrivere: “Attenzione! Spoiler!”. Ma secondo me, se siete arrivati a questo punto, potete proseguire nella lettura, perché il finale non ha una grande continuità narrativa, è piuttosto un epilogo, un “a parte” rispetto al film, ne ha un'altra estetica, un'altra fattura.

L'ambientazione è la Biennale di Venezia del 1970, in cui è celebrato il lavoro dell'ormai affermato architetto László Tóth. Lo dirò nel modo più soggettivo possibile (che poi la critica è soggettiva, altrimenti sarebbe storia): non mi è piaciuto. Un epilogo bruttino per un film straordinario. E questo mi è stonato molto, e ci ho pensato, e mi sono detta che questo è un film perfetto e quindi anche il finale deve avere un senso e inscriversi in questa perfezione.

The Brutalist si conclude con una frase pronunciata da Zsófia, la nipote di László, al pubblico (quello finzionale, davanti a lei nella narrazione, e quello reale presente in sala): «It's not the journey, it's the destination» («l'importante non è il viaggio, ma la destinazione»). Una frase che attira subito l'attenzione perché siamo solitamente abituati a sentirla a fattori invertiti: “non è la meta che conta ma il viaggio”. Ma qui non valgono le regole della matematica, qui se si inverte l'ordine dei fattori il prodotto cambia.

L'interpretazione più immediata è che questa frase si riferisca al percorso di László (alterego delle stesso Corbet), al fatto che non importa quanti sacrifici abbia dovuto affrontare, quel che conta è che alla fine si sia affermato come architetto: ma c'era bisogno di questa chiosa didascalica? Mi sembra che lo spettatore possa coglierlo anche da solo, per più di tre ore viene chiaramente messo in luce qual è il prezzo che Tóth paga per ottenere il successo.

Ma la vera nota stonata, per me, è un'altra: perché far pronunciare queste parole a Zsófia? È un personaggio relativamente marginale, tutto sommato non ha neanche un grande rapporto con suo zio, e praticamente scompare dalla narrazione quando prende una decisione assieme al marito: andare a vivere a Israele, altra terra promessa che fa da specchio a quella americana. E dunque il dubbio mi sorge spontaneo: non sarà che quella frase vuole suggerire anche qualcos'altro? Sarà forse l'ennesimo fraintendimento di (e in) questo film, ma non è che in queste parole si nasconde un sottile riferimento alla politica di Israele (e conseguentemente degli USA)?

A un giornalista che ha fatto una considerazione sulla difficoltà di raccontare certe storie all'interno dell'industria hollywoodiana e che ha sollevato la questione del film come possibile metafora della politica di Israele, Corbet ha risposto in modo ambiguo: «Sì, ci sono molte storie che non possono essere raccontate a Hollywood», ma questo è un film su «un uomo che fugge dal fascismo e trova il capitalismo. Si tratta di questo». Il dibattito è aperto.