The Bear 4 - Recensione: Controllare la data di scadenza

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Il fatto che The Bear sia riuscita tutt’oggi a fornire un’impressione di sé che si presenti dissimile dalle sue precedenti è, in effetti, inequivocabile segno di dinamismo. Ciononostante, il problema si pone quando di questa eco si parla riferendosi a un sentimento di ambiguità. Perché abbastanza inequivocabilmente The Bear 4, dopo essere stata rocambolescamente ingenua in una prima stagione inattesa, sensoriale e decostruttiva poi, dunque sovrasensibile, glauca, fluttuante, giunge infine alla sua quarta stagione pregna di quell’ambiguità che è tipica dei soggetti mobili visti da lontano, quell’informazione che arriva come farebbe una sagoma sulla linea dell’orizzonte, indaffarata e ciabattante ma, dalla prospettiva di chi guarda, dubbiosamente agente.


Un anno fa, qui su Requiem for a Film, non esitammo un istante a premiare la terza stagione di The Bear, pur comprendendo le ragioni dietro a certi rigurgiti: qualora qualcuno voglia definirla con un certo cinismo come una “stagione filler”, be’, nessuno qui proverà ad attuare una confutazione; cionondimeno, l’asticella e la promessa di risoluzione di tutto quel sovraccarico emotivo erano state fissate talmente in alto – l’inconcludenza magniloquente di quel primo episodio fondamentalmente atono, il lutto di Marcus, il parto di Nat, etc. – e in modo talmente caparbio e controtendente, che, in unione a una production value spaventosa, sulle nostre pagine fu infine premiata la volontà di rompere con sì brutalità il meccanismo martellante delle precedenti due stagioni in favore di una narrazione interiore e fluida, quasi clinica, che nessuno – e i rigurgiti, in tal senso, sono autoesplicativi – si sarebbe potuto aspettare. Stesso discorso potrebbe farsi, per altro, se si relativizza la seconda stagione rispetto alla prima, in termini puramente estetici.


Come detto però, The Bear stagione 3 aveva fatto una promessa, concludendosi con agentività e con l’uso di un cliffhanger molto, molto forte: Christopher Storer stesso avrebbe poi affermato che nella successiva stagione (la quarta) il ristorante avrebbe dovuto affrontare una sfida più grande di sé. Dunque, aspettarsi una resipiscenza, in termini puramente pragmatici, era più che lecito, se non addirittura corretto. E, almeno nelle premesse, così è stato. Questa stagione apre già finita, il The Bear è sostanzialmente destinato a morire. Qui il nocciolo della stagione: la morte, non più letta in un’accezione luttuosa (fino alla terza stagione, il ricordo e l’eredità di Mickey erano stati il motore simbolico di tutto, e la morte aveva goduto di un ché di etico, nel guidare l’agire dei personaggi), quanto più decisamente tangibile e incalzante, rappresentata con l’ovvia metonimia dei cronometri e degli orologi – che di questa serie tv sappiamo essere sempre stati deuteragonisti. The Bear 4 parla più o meno esplicitamente di morte, di non-esistenza che, partendo probabilmente dal già citato lutto di Marcus, prosegue nella strada di allontanamento dall’astrazione, il concetto di fine e dunque di tempo che diventa permeante nel modo tentacolare delle cose incombenti.


Difatti, grande pregio di questa stagione è aver saputo trovare uno pseudo-claim che abbia saputo riassumere il concetto reiteratamente, a ogni sua pronuncia: perché continuare? D’altro canto, è connaturato in tutto ciò che esiste ambire a proseguire sé stessi in una forma perpetua, auspicare al futuro solo come forma di presente, non come effettivo divenire. Stesso discorso per il The Bear, un ristorante il quale durante la propria gestazione e genesi ha vissuto tali peripezie che comprensibilmente adesso impone alla potestà del tempo un atto di rifiuto esistenziale, un’asserzione di vita tramite il caparbio perseverare nella propria ragion d’essere. Che detto in termini freddamente economici significa sostanzialmente non andare più in rosso, e farlo entro un preciso e ben scandito, durante tutta la stagione, lasso di tempo. 


A questo aggiungiamo la solita, monstre capacità produttiva, la qualità tecnica e l’uso schifosamente abbacinante della musica, che per quattro stagioni di fila continua a ostentare una comprensione estetica del mezzo televisivo fuori scala rispetto alla maggior parte delle serie tv sue coeve. Insomma, dalle premesse, tutto sembra muoversi verso la risoluzione di quel crescendo (capacemente) castrato che è stata la stagione precedente.


L’ambiguità, però. Il discorso che questa stagione sembra fare è il seguente: come reagisce un essere senziente all’acquisizione di coscienza della propria finitezza? La prevedibilità della risposta – si può trovare non rimedio, ma sollievo, solo negli altri, fuori da sé stessi – non è segno di scarsa ricercatezza, giacché il suo giungerci e rendersi comprensibile schiettamente è segno di inaggirabile realismo – e, insomma, dobbiamo accettare questa spiacevole consapevolezza; il problema, qui, è che la risoluzione rispetto al countdown naturale del tempo è sempre e solo emozionale. Non c’è nulla di pragmatico in questa stagione, se non un timido e, chi avrebbe mai pensato di dirlo parlando di The Bear, diabetico accenno nel terzo episodio.


Ogni puntata orbita intorno alla papabile risoluzione di rapporti interpersonali, peraltro incapriccendosi su taluni personaggi il cui valore era stato finora nullo o quasi – il rapporto di Marcus con il padre, l’odio quasi perverso e immemore di Nat verso la storica ex amica Francine, il deliquio che affligge il rapporto tra Sydney e suo padre, e via discorrendo… tutti rapporti umani che, positivamente o meno, si risolvono senza che questo abbia poi un reale impatto sull’avanzare della narrazione, diventando dunque ornamenti inutili. La conseguenza più ovvia di questo piede così calcato sull’acceleratore del fare-la-pace? Una didascalica scrittura dei personaggi, il cui agire è chiaro fino al palese, le cui intenzioni sono descritte con fin troppa ed esplicita chiarezza, fattore che è agli antipodi di quello che è sempre stato The Bear fino a qui: incomunicabilità schizofrenica.


E in tutto questo rimuginare e ritrattare i propri sentimenti, volto ovviamente a esaltare ancor più la complicata inestricabilità del cespo famigliare dei Berzatto e dei Fak che – a parere di chi scrive – inizia a sembrare un pelo proclamatorio, passa in secondo piano la narrazione di ciò che avrebbe dovuto essere il principio esistenziale di questa stagione: salvare il The Bear, che frattanto, che vada in crescita o in perdita, ci viene detto giusto con la dissolvenza incrociata di un grafico la cui parabola talvolta scende, e talvolta sale.


Questa stagione ha ottimi pregi – soprattutto di natura tecnica ed estetica – ma si presenta come una grande occasione sprecata in quanto a intenzioni e modi del racconto, e la sensazione è che questo stallo emozionale sia stato quasi una scusa dietro la quale nascondersi per non buttarsi oltre l’ostacolo di una minaccia che, entrando e uscendo il più velocemente possibile da una prospettiva meta, era (o avrebbe dovuto essere) grande quanto la serie tv stessa, e che in tal senso sembra forse essersi rivelata un fardello troppo grande financo per gli stessi Christopher Storer e redazione.


Per la prima volta, è sembrato che The Bear avesse “poco da dire”; e allora, per esprimere il concetto come gli stessi personaggi, perché continuare? La risposta sta nell’ultimo episodio che – non facciamo spoiler – ha dovuto necessariamente ottemperare al congelamento dei nove precedenti sganciando la proverbiale bomba di fine stagione, di nuovo affidandosi a un pesante, ingombrante cliffhanger che, se da un lato giustifica taluni momenti di ondivaga irresolutezza in questa stagione, dall’altro sembra risultare come l’unica soluzione disponibile per rendere, almeno per un anno ancora, il The Bear degno di vivere.


Parliamo comunque di una delle migliori serie tv dell’anno? Come detto, di fronte a una tale capacità produttiva, non si può dire che sì, probabilmente si tratta di nuovo di uno dei migliori prodotti d’annata. Ma per la prima volta, è sembrato di vedere una crepa.