The last showgirl: bisogna saper ballare sotto la pioggia
In mezzo a un cast di sole donne, a eccezione di Dave Bautista (Eddie), Pamela Anderson si confronta per la prima volta con un ruolo decisamente non in linea con quelli interpretati in precedenza, ruolo che le è stato cucito addosso su misura e le calza a pennello come i costumi di scena.
Fortemente voluta da Gia Coppola come protagonista, Anderson non solo si dimostra all’altezza dell’impresa, ma ne esce vittoriosa, sicuramente complice la sua affinità con il carattere di Shelley.
Shelley è una storica showgirl e ballerina di Las Vegas, ormai ultracinquantenne, che ha vissuto in prima linea gli anni d’oro del cosiddetto revue o show di rivista, un genere di esibizione in cui si alternano musica, canto, strip-tease e, naturalmente, balletti.
A più di trent’anni dal debutto, viene cancellato Le Razzle Dazzle, lo spettacolo in cui Shelley si esibisce da decenni – e per il quale ha voluto sacrificare ogni aspetto della sua vita privata.
Si capisce, i tempi sono cambiati, e il pubblico non si accontenta più di un format nostalgico e poco dinamico.
Così, Shelley si trova affacciata a un mercato del lavoro che privilegia ragazze appena maggiorenni e atletiche, e che offre un genere di spettacolo dove la nudità diventa solo volgarità e sguaiatezza.
Uno scenario inaccettabile e irrealizzabile per Shelley, che parallelamente, con la fine dell’incanto in cui ha vissuto per anni, viene messa di fronte a ciò che ha trascurato: sua figlia (Billie Lourd).
A navigare tra le difficoltà della fine di una carriera, che è prima di tutto una passione e una ragione di vita, Shelley non è però sola: con lei, la sua amica più stretta Annette (Jamie Lee Curtis) e le altre ragazze dello spettacolo, interpretate da Brenda Song e Kiernan Shipka.
L’universo in cui vive l’ultima delle showgirls è prevalentemente notturno, fatto di glitter e di spettatori e di ruoli da interpretare; ma è anche frenesia e preoccupazioni quotidiane espresse nel camerino prima dell’esibizione.
Per questo, The last showgirl rievoca Anora, e forse sempre per questo le attrici protagoniste dei due film sono state scelte da Variety per conversare insieme in una puntata di Actors on Actors.
In fondo, entrambe vivono in una fiaba. Anora è la principessa convinta che qualcuno verrà a salvarla. Shelley non ha bisogno di un principe azzurro, ma prende vita sotto i riflettori come i sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, si carica a molla e dà ogni sera il meglio di sé come le ballerine nelle scatole musicali.
Vive nell’illusione che la sua età non conti, che i colori a cui è abituata non siano sbiaditi, e che potrà continuare a vivere così per sempre: non accetta di essere la regina di un regno ormai andato in rovina.
Se il film di Coppola racconta l’ostinazione di una donna di mezz’età e la sua rivendicazione a voler fare parte del mondo dello spettacolo per quella che è, in The Substance Demi Moore ha esemplificato la lucida follia di chi invece ha preso coscienza del proprio decadimento e dei meccanismi della fama, volgendosi all’unica soluzione possibile: ringiovanire.
Lo stile del film, però, è ben distante da quello di entrambi i lavori sopra citati. L’atmosfera è sognante e retrò, prosaica ma al limite della poetica proprio come lo può essere Las Vegas, se la si guarda con gli occhi giusti.
Le immagini rarefatte, velate da una patina sfocata e "sbiancata", ricordano un po’ l’estetica Tumblr del decennio scorso, e alcuni primissimi piani su oggetti di vita quotidiana non possono che essere un prestito dalla stessa zia della regista (Sofia Coppola).
La colonna sonora aiuta decisamente ad accompagnare lo spettatore in questa dimensione: il risultato finale è che la visione artistica di Coppola combacia, per una buona percentuale delle scene, con quella dei videoclip dal gusto tutto americano di Lana Del Rey.
Impossibile non menzionare gli abiti, che riportano ancora più indietro nel tempo e lo fanno con accuratezza storica: tutti i costumi di scena, infatti, sono gli originali dell’archivio di Bob Mackie, il celebre stilista e costumista di Cher, ma anche di Madonna, Liza Minnelli, Dolly Parton.
I costumi di Shelley, Marianne, Jodie e delle altre ragazze sono quelli che Mackie aveva disegnato per Jubilee!, l’iconico show andato in scena per 35 anni e terminato nel 2016. Proprio la sua chiusura ha ispirato la sceneggiatrice Kate Gersten per la stesura del copione – originariamente concepito per il teatro, poi adattato per il grande schermo.
Il Jubilee! è stato uno dei principali show che hanno contribuito a forgiare l’immagine della showgirl per come la concepiamo oggi, e a darle la dignità che proprio Shelley rivendica. Non è un semplice balletto o addirittura uno spogliarello, non ha niente a che vedere con le moderne forme di spettacolo che antepongono l’esibizionismo all’esibizione e, per come li percepisce lei, degradano il corpo della donna.
Per Shelley Le Razzle Dazzle è Parigi, è arte, tradizione, gloria. È sentirsi bella e potente.
Guarda alla statua del Blue Angel, con le ali e i capelli biondi proprio come lei, quasi fosse la sua Statua della Libertà. Perché va fiera di quello che ha sempre fatto, e non mostra pentimento.
Il suo personaggio non è effettivamente sempre facile da digerire, e l’empatia forse non è la prima emozione che suscita.
Shelley è una donna cresciuta coi valori dell’indipendenza, dell’autorealizzazione, dell’importanza di amare ciò che si fa.
E in quanto protagonista della sua vita, sono gli altri a doversi adattare e piegare alle sue condizioni, ma questo non può che risultare molto doloroso in certi casi.
Anderson si mette alla prova, come già nel suo debutto a Broadway in Chicago, nell’usare la sua immagine e la sua bellezza per dire qualcosa in più, qualcosa di diverso, e il suo entusiasmo è palpabile anche al di là dello schermo. Viene da chiedersi quanto stia effettivamente recitando e quanto, invece, quel modo di fare genuino e un po’ bambinesco non portino il suo nome e cognome. Ma questo, ai fini di una valutazione, non ci interessa.
Forse non sarà un film che rimarrà nella storia del cinema, ma The Last Showgirl è una chicca emozionante e visivamente davvero piacevole, che si aggiunge in coda al già menzionato The Substance per la riflessione sull’invecchiamento del corpo femminile nello showbiz.