The Elephant Man - Una ninna nanna gotica sul dolore che non chiede, e sull’uomo chiamato Merrick
Vi sono opere che non si avvicinano con clamore, né bussano forte all’animo umano. Esse attendono, semplicemente — con grazia quieta e pazienza antica — nell’angolo più silenzioso del pensiero. Non pretendono d’essere amate, né reclamano ammirazione. Desiderano soltanto essere viste. The Elephant Man, nella forma datagli dal signor David Lynch, è un tale oggetto. Non anela alla gloria. Non cerca stupore. Si posa come una coperta di lutto su chi guarda — e non si scrolla via, non evapora. Resta. Come fuliggine raccolta nei drappeggi d’un tendaggio dimenticato, o brina posatasi su un vetro di chiesa prima che il sole si levi.
Questo non è il Lynch degli incubi annebbiati dal fumo e dei corridoi cremisi. Non è l’architetto d’incubi soffocanti né il tessitore di enigmi febbrili. Qui non si rincorrono jazz deformi. Qui, egli depone i suoi strumenti d’inquietudine e accende, invece, una sola candela tremolante. E v’è qualcosa di miracoloso nell’osservare colui che governa il caos chinare il capo e offrire, invece, un gesto di pietà.
Il principio del film è immerso nell’ombra. Non quella poetica e gentile del tramonto, bensì una vera oscurità industriale: greve, soffocante, impastata di fuliggine. Una Londra che non canta, non danza, non sogna. Una città fatta di mattoni neri, di muri che trasudano pianto e strade che sudano miseria. I camini, alti e indifferenti, sputano nubi eterne nel cielo spento. Ogni vicolo geme, ogni androne sussurra qualcosa di perduto e crudele.
In questo scenario — senza Dio, riposo e alcuna consolazione — vive un uomo a cui non è concesso d’esser chiamato tale. Il suo nome non viene pronunciato. La società l’ha ribattezzato in scherno, fatto spettacolo del suo corpo, negato la sua dignità. È l’oggetto del pietismo, dello stupore, dell’orrore dissimulato. Gli si permette di esistere soltanto quando diventa intrattenimento: per i medici, per i curiosi, per coloro che si dicono buoni ma sono avidi di sensazioni.
E tuttavia, il regista non cede mai alla tentazione del mostruoso. Non ci offre il sollievo della repulsione. Volge invece lo sguardo, abbassa la voce. Ci chiede non di fissare, ma di osservare. V’è abisso tra le due cose. Ed è in questa distinzione, in questo atto silenzioso e pieno di grazia e purezza, che si cela il cuore dell’opera.
Nei vicoli oscuri della Londra vittoriana, dove il fumo si arriccia come i segreti e la crudeltà indossa abiti eleganti, incontriamo John Merrick - un uomo sfigurato nel corpo, ma mai nella grazia. Ritratto con dolorosa dignità da John Hurt, Merrick viene presentato come uno spettacolo, un mostro, una triste meraviglia. Ma lentamente, sotto lo sguardo freddo della scienza e la curiosità morbosa delle masse, ci viene mostrata la verità: quella mostruosità non è nel volto, ma nell'occhio che giudica.
Il Dr. Frederick Treves, interpretato da Anthony Hopkins, è il testimone silenzioso di questa trasformazione - o forse, colui che si sta trasformando. Il suo contenimento è commovente come la vulnerabilità di Hurt. Insieme, ballano un lento e triste duetto - uomo e specchio, salvatore e penitente.
Le interpretazioni sono così umili da sembrare vissute piuttosto che recitate. Nessuno è bello, nessuno brillante, nessuno scrive battute per piacere al pubblico. I personaggi appaiono reali nel modo in cui solo la vera miseria e la vera compassione sanno rendere le anime: imperfette, contraddittorie, tremanti.
John Hurt, nel ruolo del signor Merrick, vive, respira, soffre. È come assistere al lento schiudersi di un fiore nella neve: ogni parola è un atto di coraggio, ogni silenzio un grido trattenuto. Anthony Hopkins — il dottor Treves — è l’uomo che osserva, e nel contemplare impara. E noi con lui.
La pellicola è in bianco e nero. Non per ornamento, ma per necessità. Pare quasi che i colori non possano contenere questa storia — come se l’ombra fosse la sola lingua possibile. Ogni immagine è scolpita nella luce e nell’assenza di essa: una lacrima, la sporgenza d’un osso, il filo di vapore d’un bollitore abbandonato su una stufa spenta. Tutto si riduce all’essenziale — come se anche noi dovessimo imparare a vedere col cuore e non con l’occhio.
La musica, quando giunge, lo fa come un ricordo. Non annuncia, non interrompe. Arriva come arriva il rimpianto: lieve, dimenticato a metà. E nei silenzi, restiamo soli. Col battito degli orologi. Col fruscio dei lenzuoli. Con i passi esitanti che percorrono corridoi spogli. Questo film osserva più di quanto narri. E nel suo osservare, insegna.
Eppure non è un’opera crudele.
Ferita, sì — gravemente. Sottoposta all’indifferenza d’un mondo che premia ciò che è usuale e punisce ciò che è diverso. Ma al fondo del dolore c’è tenerezza, che vibra come una fiamma nella corrente. Mani guantate versano tè in silenzio. Una voce legge un libro a un altro essere umano. Uno specchio viene affrontato con esitazione. Ogni gesto è preghiera, non per sacralità esteriore, ma per verità interiore.
I temi che emergono non svaniscono con i titoli di coda. Cosa significa dignità? Chi la dona, e chi la toglie? L’anima è fatta di come ci vedono gli altri, o vi è in essa qualcosa d’inviolabile, persino sotto il peso del ridicolo e della paura? È davvero possibile vedere un essere umano spogliato di aspettative?
Non è una storia di redenzione. Nessuna ascesa. Nessuna gloria. Non consola, non eleva. È qualcosa di più raro: un invito a esser presenti. A restare. A diventare testimoni — non spettatori — accanto a chi il mondo ha bandito. E forse, attraverso questa prossimità silenziosa, a guarire.
Alla fine, The Elephant Man fa ciò che ogni fiaba gotica dovrebbe fare: confonde il confine tra mito e memoria, tra malinconia e grazia. Racconta di un uomo, sì — ma anche di tutti noi, del nostro modo di amare, del nostro modo di fallire, del nostro sguardo che non vede. E ci ricorda che la compassione non urla. Sussurra. Tace. Persiste.
Come un passo leggero sul pavimento di pietra.
Come un respiro su un vetro d’inverno.
Come l’eco d'un anima che ancora attende.
The Elephant Man non finisce. Rimane. Come il fumo dopo che la candela si spegne. Come l’odore di pioggia su un cappotto appeso. Ti seguirà. Anche se non ne parlerai. Alcune storie non si raccontano. Si custodiscono.
E ancora ti vedo, col crepuscolo nella mano,
Una figura velata di grigio,
Che non supplica un paradiso lontano,
Ma chiede soltanto: “Posso restare?”
E sì — se quel potere mi fosse concesso,
Se una volontà potesse piegare il tempo —
Ti costruirei un’ora muta,
E lascerei che il mondo si fermasse.
Perché vi sono santi nascosti nell’ombra,
E re che non portano corona —
E lacrime che il cielo ha pianto,
Quando nessuno, in terra, ne ha fatto memoria.
Passò lieve tra le porte antiche,
La sua voce una fiamma tra le ombre.
E quando pronunciò il suo nome, la notte si scaldò —
Ogni gelo si sciolse, al riparo da ogni male.
Si posa — come polvere sottile su un libro chiuso. Come la carezza che non si osa dare, e che pure si ricorda per tutta una vita.
Dunque io vi prego: oggi, domani o dopodomani, se avete in voi ancora un animo non indurito dalla fretta o dal cinismo, andate. Sedetevi. Lasciate che vi racconti ciò che spesso ci sforziamo di dimenticare. Non che il mondo sia crudele — ma che, nonostante tutto, la tenerezza esiste. E resiste.