Una battaglia dopo l’altra - La “rivoluzione” secondo Paul Thomas Anderson

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Se c’è una cosa che rimane costantemente al centro della narrazione de Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson quella cosa è l’America, assieme a tutte le sue contraddizioni e la sua immutabilità.

Per parlare del presente il regista adatta Vinland, un romanzo ambientato all’epoca di Reagan: ora il presidente è cambiato, ma troppe ingiustizie sono rimaste immutate.

E il suddetto romanzo è scritto da Thomas Pynchon, autore che Anderson torna a adattare dopo Vizio di forma. Le similarità tra le due opere letterarie e filmiche sono palpabili, a partire dal personaggio/drugo che affronta un bizzarro rivale, in un mondo colmo di assurdità al limite tra comico e tragico.

Dunque, Anderson parla dell’America, non più di Reagan ma di Trump, figura mai palesata ma suggerita visivamente dal muro che divide Stati Uniti e Messico e ideologicamente da slogan come: “vuoi salvare il pianeta, inizia dall’immigrazione”.

Il presente mostrato da Anderson contiene tutte le sfaccettature di una contemporaneità in cui il malcontento verso l’ordine costituito si esprime nell'omicidio di Charlie Kirk o nella deificazione di figure come Luigi Mangione. Una particolare atmosfera politica di cui, non a caso, tratta anche Gus Van Sant nel suo ultimo Dead Man's Wire.

Una battaglia dopo l’altra parla tanto anche di rivoluzione. Ma la rivoluzione di Paul Thomas Anderson non è perfetta, e soprattutto non è fatta di eroi integerrimi.

Quella che porta Anderson è una visione simile a quella di un Pasolini che inaspettatamente si pronunciò in favore della polizia durante la “falsa rivoluzione del 68”. Insomma, una visione complessa e non semplicistica.

Così, per i primi quaranta minuti di film il regista ci mostra la rivoluzione, ci fa entrare al suo interno e viverne i grandi ideali, solo per poi mostrarci la caduta del suo simbolo: Perfidia Beverly Hills.

Incarnazione DELL’ideale, una donna con lo sguardo pungente creato da una singola ciglia più lunga delle altre, che improvvisamente si perde insieme alle sue convinzioni.

Da quel momento anche la rivoluzione sembra svuotarsi della sua forza, colma di inutili frasi in codice e “Viva la revolución” urlati in memoria di un passato di cui non si ricordano neppure le motivazioni.

Dall’altro lato il suo opposto, l’istituzione, ovvero: Steven J. Lockjaw.

Uno splendido Sean Penn interpreta un personaggio che incarna tutta l’incoerenza del potere, tutta la falsità e l’odio di ideali in cui non si crede neppure davvero, ma che sono necessari a perseguire i propri obbiettivi.

Il suo buffo nome e la sua caratterizzazione da clown quasi patetico appaiono geniali, perché celano la vera cattiveria, fatta della peggior discriminazione nascosta da ridicoli vecchi bacucchi e appellativi come “i pionieri del Natale”.

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Ultima punta del triangolo è il personaggio splendidamente interpretato da Leonardo di Caprio: Pat, o meglio Bob, anche chiamato Rocketman, ma va bene anche Ghetto Pat.

Tra la rivoluzione abortita di Perfidia e l’istituzione insensata di Lockjaw si trova la totale stasi di Bob, i cui ideali sono ormai offuscati dai fumi dell’alcool e della marijuana, mentre rimane solo qualche vecchia frase in codice ricordata a tentoni.

Un uomo stanco ma in fin dei conti sinceramente buono e amorevole, che per tornare attivo non ha bisogno più di ideologie ma di combattere una battaglia personale.

Fuori da ogni fazione o schema si trova Willa, o anche Charlene, outsider anche per quanto riguarda l’interprete, un’esordiente Chase Infiniti circondata ma non sopraffatta da volti di spicco.

E proprio l’immagine del volto di Willa/Charlene/Chase avvolta da una potente luce bianca dà il via alla seconda parte della narrazione: l’inizio di una nuova battaglia.

Lei, così simile a una madre che non ha mai conosciuto ma che impara presto a definire “infame”, lei che è praticamente nata con un fucile in mano e che per destino si è trovata a combattere una battaglia che sembra non appartenerle, ma che è il naturale proseguimento di quella combattuta dai suoi genitori.

Le colpe dei genitori sono, ahimè, ricadute sui figli, mentre Anderson fa parallelamente una dolce analisi sulla genitorialità e sulla forza dei legami acquisti.

In Una battaglia dopo l’altra le motivazioni a tratti appaiono incomprensibili, e questa è proprio l’assurdità dei nostri giorni, che deve essere decifrata da chi purtroppo si è ritrovato in mano un mondo distrutto da altri, come avviene a Willa.

La regia e la fotografia di Anderson incorniciano perfettamente questa complessa narrazione. In scene magnifiche come quella dell’inseguimento ripreso con teleobiettivi che accorciano la distanza fra le immense strade deserte che si potrebbero trovare solo in quella che resta il fulcro della narrazione: l’America.

Un paese continuamente mostrato con una luce dura e accecante, composto da spazi incredibilmente vasti, spesso desertici, spesso anche colmi di ingiustizie.

Ma le note finali sono positive, come quelle della canzone che accompagna i titoli di coda, chiamata non a caso American girl.

Anderson termina le battaglie delle vecchie generazioni per assegnarne di nuove ai più giovani, a cui affida l’arduo compito di provare a cambiare il mondo.

“La rivoluzione non sarà trasmessa in televisione” è il titolo di una famosa canzone citata anche nel film. Da quello che si sta vedendo in giro nel mondo si può sperare che però verrà trasmessa sui social, dal basso, ma soprattutto dai più giovani, in questo forse confida anche Paul Thomas Anderson.