EL JOCKEY - Metamorfosi di nessuno
Prendiamo un fantino insuperabile, il più bravo di tutti, il più redditizio. Prendiamo poi un cavallo giapponese, il più veloce di tutti, il più costoso. Prendiamo infine un incidente (forse, almeno in parte, cercato più che temuto), una gravidanza, una pelliccia e una bilancia. Questi gli ingredienti del nuovo surreale film di Luis Ortega, attuale ma senza tempo, innovativo ma non presuntuoso.
Cosa è risultato da questa insolita ricetta? Scopriamolo insieme.
Presentato a Venezia nel 2024 e uscito nelle sale il 17 luglio in versione originale sottotitolata, El Jockey vede come protagonista Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart), un fantino prodigio ma sempre assente a sé stesso: oltre a essere perennemente offuscato dalla sua dipendenza da sostanze, non ha il minimo controllo sul proprio lavoro, che, come per molti altri, coincide con la propria vita e identità.
Sia lui che la sua ragazza Abril (Úrsula Corberó), incinta, si trovano infatti alle dipendenze di Sirena, che, da bravo padrone, pretende il massimo dai suoi dipendenti e li considera mere macchine da soldi.
Forse per una reale perdita di controllo, o forse seguendo il consiglio di Abril – «Devi morire e poi rinascere» – dopo la gara col costosissimo cavallo giapponese, gara che avrebbe dovuto vincere, Remo si risveglia all’ospedale.
Nell’incidente è morto il cavallo, mentre Remo si è fatto oggetto dell’ennesimo miracolo, non tanto salvandosi fisicamente quanto uccidendo metaforicamente il personaggio che portava il suo nome.
È qui che inizia davvero a vivere la sua storia: non quella di Sirena, non quella di chi aveva guadagnato o perso scommettendo su di lui, neanche quella di Remo in senso stretto, in senso anagrafico. Perché Remo Manfredini non sarà mai più la stessa persona di prima, e allora mantenere lo stesso nome di prima sarebbe una stonatura, una violenza.
Quando Remo esce dall'ospedale, interamente ricoperto da una vistosa pelliccia come la farfalla dal bozzolo, va subito a pesarsi su una bilancia in farmacia. Esito? Zero grammi. La sua vera identità non esiste ancora, e come affermerà lui stesso dovrà partorirsi da solo.
Per farlo, inizia col ricomporre il mosaico della propria identità raccogliendo dalle strade oggetti apparentemente insignificanti, frammenti delle vite degli altri che potrebbero benissimo essere la sua: il fil rouge del film è una canzone che ripete “a mí me pasa lo mismo que a usted”.
La narrazione viene portata avanti principalmente tramite inquadrature fisse, con scene dal sapore onirico e surreale e con una spasmodica ricerca di simmetria che, accompagnata da colori vividi e di almodovariana memoria, restituisce immagini degne di un Wes Anderson sotto steroidi.
Il direttore della fotografia Timo Salminen è stato sicuramente determinante per l’ottima riuscita di questa scelta stilistica: durante una buona percentuale del tempo, per composizione e colori sembrava di osservare un quadro animato.
In compenso, la sceneggiatura è essenziale nei dialoghi e misurata nelle passioni, e proprio in ciò risiede la forza del film: non urla mai (al massimo canta), fa appena commuovere senza piangere, fa sorridere senza sbellicarsi.
Non è un film didascalico, a mo’ di saggio accademico; è evidente che film del genere esistono e sanno anche lasciare il segno, ma per l’appunto già ci sono e Ortega ne è consapevole.
Qui il dramma riesce a farsi strada pur senza essere declamato con pathos, lo sentiamo sulla nostra pelle perché ognuno sovrappone la propria crisi a quella di Remo.
Infatti la specifica forma che la sua rinascita prende non è il vero tema del film, è piuttosto l’emblema della trasformazione e il mezzo più potente per mettere a tema due problemi universali: il lavoro e l’identità.
In merito al primo, la visione del film rievoca in molti punti La metamorfosi di Kafka. C’è una scena in cui Remo, confinato in una cella di pochi metri quadrati, inizia a camminare sulle pareti: «così, per distrarsi, prese l’abitudine di camminare lungo i muri e sul soffitto», e «arrampicandosi egli lasciava di tanto in tanto in tanto qualche traccia del suo secreto viscoso», proprio come Remo lascia il segno delle proprie impronte.
Remo Manfredini e Gregor Samsa un giorno si svegliano e la loro vita viene stravolta, si trovano a fare i conti con una nuova identità mentre agli altri importa solo del fatto che non possono essere più produttivi come prima.
A tutti tranne una: la sorella nel caso di Kafka, Abril in El Jockey, la quale resta accanto a Remo per la sua anima anche se il rapporto, com’è naturale, evolve e si modifica, lasciando comunque spazio per tutte le nascite previste e impreviste.
La differenza è che Remo non aspettava altro che un evento disastroso per potersi liberare dalla prigionia alienante della sua vita, per farsi finalmente persona dopo anni di macchina.
A tal proposito mi sono chiesta perché il compito di rappresentare l’alienazione e il cambiamento fosse stato assegnato proprio a un fantino. In fondo ci sono tanti altri mestieri e sport anche più esigenti e opprimenti rispetto alla corsa col cavallo.
La mia personale risposta è che il cavallo è per natura un animale libero, come tutti gli altri animali, ma che l’uomo ha scoperto presto di poter incatenare e sfruttare e inquinare con la scommessa di cifre folli.
L’ippica mette in circolo denaro a vantaggio di pochi, e prevede la corsa in un cerchio senza fine e senza meta, dove forse si perde di vista il motivo per cui ci si era inizialmente approcciati alla disciplina.
Il secondo tema è l’urgenza di abbandonare la morbosa attenzione che riserviamo alle etichette, prima fra tutte l’unica con cui scegliamo di marchiarci quando un nuovo conoscente ci pone la domanda da un milione di euro: «E quindi tu che fai nella vita?».
Non significa che si debba rispondere «Faccio cose, vedo gente», ma le etichette hanno un lato appiccicoso proprio per poter essere cambiate, aggiunte, rimosse. Possiamo sempre rivendicare il diritto di non essere nessuno, disabituarci a chi siamo, fare spazio per chi saremo.
Il punto è che spesso sentiamo che a mancare è una legittimazione per farlo, un evento puntuale in seguito al quale avremo finalmente il permesso di rinascere. Ma il permesso, ça va sans dire, non deve darcelo nessuno di diverso da noi, ed è anzi un atto di civiltà e rispetto verso la creatura umana prendersi la responsabilità di accogliere ogni sua forma e colore nel corso di una vita.