Queer - Recensione: Un'illustrazione edulcorata

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La prima volta che ho visto Queer – il nuovo film di Luca Guadagnino che ha seguito a stretto giro Challengers – a Venezia81, l’ho apprezzato moltissimo e sotto diversi punti di vista. Ricordo vividamente alcune scene al contempo struggenti e dolcissime che mi si appiccicarono agli occhi e ci rimasero per giorni. A mesi di distanza ho deciso di leggere il libro da cui è tratto: l’omonimo romanzo (se non autobiografico, quantomeno auto-ispirato) di William Burroughs, scritto tra il 1951 e 1953 ma pubblicato solo nel 1985. Riguardando una seconda volta il film, l’ho trovato molto ben fatto ma estremamente noioso. Eccezion fatta per la stessa manciata di scene, che credo valgano l’opera. 

Queer è estremamente fedele al romanzo sia nella trama che nei dialoghi (alcuni sono proprio tali e quali li ha pensati la penna di Borroughs), per cui la cifra maggiore della soggettività di Guadagnino sta nella fotografia e nelle ambientazioni. E in quel labile confine che a mano a mano si delinea tra realtà e sogno, tra realtà e patologia


La prima parte del film si svolge in una Città del Messico onirica, tra un locale e l’altro, diversi omosessuali, ma soprattutto – a parte loro e qualche altro personaggio di contorno, come Mary (Andra Ursuța) – poca, pochissima gente. Quello su cui si muovono i personaggi è lo sfondo di un’America Latina polverosa e sbiadita, estremamente calda, quasi bidimensionale. Un’Americana latina pensata e vista tramite l’occhio miope di uno statunitense, quale effettivamente è William Lee: protagonista del film, nonché alter ego di Borroughs nella versione letteraria, qui interpretato da un magistrale Daniel Craig. Il Messico pare un quadro fisso, storpiato di scena in scena in un’illusione ottica che fa credere allo spettatore di avere luoghi diversi da offrirgli, attraverso cui farlo passare. E invece è sempre quello, con le stesse strade e la stessa gente, gli stessi dialoghi americani in uno spagnolo stentato. Borroughs, non è un caso, ne parla come di una ‘sala d’attesa’: Città del Messico è un posto da cui qualcuno parte e a cui qualcuno arriva, in ogni caso per andare altrove


Dopo essersi spostato verso sud, Lee parla con un medico e gli dice: «sono venuto qui dagli Stati Uniti perché là, nelle mie condizioni, sono un criminale». Si riferisce così alla dipendenza da oppiacei, di cui soffre da molto tempo. Oltre a bere, farsi e frequentare locali gay, Lee non fa in effetti molto altro; ma l’esplorazione della sua omosessualità ha bisogno di molto tempo e poche parole. Non c’è morale che tenga, nel personaggio che Craig incarna, ed è proprio in questa sua istintualità infantile che si nasconde la cifra di una purezza quasi assoluta. Di fronte al paradosso di Lee, agitato da ossessioni e passioni e dipendenze, Eugene Allerton (un bravissimo Drew Starkey) pare il ritratto di dell’indifferenza. Non appena ne intravede il viso annoiato, a Lee si ripresenta il «dolore lacerante di un desiderio senza limiti», che già scandisce la sua vita e già gli fa assumere posture bizzarre nel tentativo vagamente teatrale di darsi un contegno: di mascherarsi. 


Allerton diventa piano piano un’ossessione, la proiezione di un bisogno – anche qui – sporco e puro, la prospettiva di ciò che manca di più a Lee nella vita e cioè l’amore inteso come connessione profonda, umana. Tra i due c’è dapprima un’intesa, subito bloccata dall’ambiguità di Allerton, che un po’ ci sta e un po’ no, ma solo quando ha voglia; Lee e Allerton non riescono più a trovarsi, si cercano e si rifuggono. O meglio, Lee cerca Allerton e viene silenziosamente schivato, poi riaccolto, poi schivato ancora. Dal momento che i loro corpi non riescono a trovare un modo di essere l’uno con l’altro, l’unica strada che si prospetta a Lee è instaurare una connessione mentale, possibilmente telepatica. Una volta che sai di meritare l’amore, dice, «la cosa più difficile è convincere qualcuno che è davvero parte di te». Lee crede e ripete che siamo tutti connessi, tutti già parte uno dell’altro, e – verso la fine di un film altrimenti piuttosto piatto – ci crede anche Guadagnino. I due, dopo varie trattative sulle dinamiche del viaggio, si trovano in America del Sud, a cercare lo Yage (o Ayahuasca); uno psichedelico, si dice, capace di sbloccare abilità telepatiche. 


Foresta. Lee e Allerton assumono lo Yage per la prima volta, i loro corpi finalmente si (ri)incontrano. Pelli e cuori, colori, ombre e sfumature si mescolano su uno schermo prepotentemente kafkiano, significando al contempo morte lenta e rinascita. Quello che pare un mantra nel corso del film, «non sono omosessuale, sono disincarnato», assume qui un senso visivo potente: un punto di non ritorno nella vita di entrambi. Ciò che questa metamorfosi lascerà, oltre alla conferma che Lee aveva ragione, siamo connessi l’un l’altro, è l’amaro di due scelte di vita diverse, una più intimorita dell’altra


L’impressione è che l’opera si salvi da questo momento in poi. Pare che Guadagnino allenti la presa sull’artificialità – evidentemente voluta, si intende – che ha governato la prima parte del film; le ambientazioni piatte rimangono, ma chi le attraversa in qualche modo prende vita. E così fa Lee, che non avendo più nulla da perdere, tantomeno in termini di apparenza, accetta apertamente di farsi usare da Allerton. L’interpretazione di Craig rimane eccezionale ma nei limiti della sostanziale differenza tra il Lee di Guadagnino e quello di Borroughs, decisamente meno impostato. Così come le atmosfere, i posti e le persone: se nel romanzo tutto concorre a determinare la forza di un fiume in piena, di colori e sensazioni fortissime, sullo schermo appare nient’altro che la versione edulcorata di un’opera disordinata e potente.