Nella eccezionale normalità della sua vita, Romy (Nikole Kidman) è CEO di una prestigiosa tech company, madre di due bellissime figlie (Nora e Isabel), moglie di un regista teatrale (Jacob, Antonio Banderas). Il film si apre con un suo (finto) orgasmo, e ci vorrà più di metà pellicola perché lei ammetta al marito: con te ho sempre finto. Nel frattempo, nella sua vita, è successo di tutto.
Romy vive in un modello di felicità moderna dove ciò che le è richiesto è performare sempre, dare ordini sempre: esercitare il potere che si è guadagnata. Ma l’animale represso che è in lei ci sta stretto e, senza che Romy abbia il tempo di rendersene ben conto, inizia a rivendicare i propri spazi. Il pretesto è una mattina grigia in cui, prima di raggiungere il proprio ufficio, incontra Samuel.
«Do you think I don’t like power? – I think you like to be told what to do».
Sebbene Samuel – interpretato da un brillante Harris Dickinson, che abbiamo già visto in Triangle of Sadness – sia un giovanissimo dipendente della compagnia gestita da Romy, e quindi gerarchicamente inferiore rispetto a lei, ben presto tra i due si innesta una dinamica di potere diversa, che si articola in ambienti diversi: sul lavoro Romy comanda, ma nella vita privata Samuel la domina. Tra i due si instaura un gioco erotico sempre aperto: a riempire un vuoto nella vita di lei e a costituire una parte del doppio che è lui. Mentre Romy cammina su un filo sottilissimo tra umiliazione e riappropriazione del proprio piacere, Samuel si destreggia tra lei e una ben più ordinaria frequentazione con una collega. Dice di tener ben distinte le due cose: «con te sono il vero me, con lei un’altra persona».
Sebbene le regole del gioco impongano a Samuel un certo potere su Romy, le dinamiche sono più complicate. Il personaggio di lui gioca infatti su una volontà di prevaricazione maschile che trova un suo equilibrio tra senso di colpa, paura di sé e consenso – altro tema centrale del film. Samuel fa fare la qualunque a Romy, ma non senza domandarsi: fin dove posso spingermi, per importi qualcosa senza costringerti a farlo? Come questo gioco che stiamo facendo è declinabile senza perdere di vista le nostre dignità?
«Romy, am I relevant to you? »
In casa di Romy tutti si accorgono del suo cambiamento: Isabel – la figlia più grande – le parla da pari a pari, mentre il marito inizia a nutrire timidi dubbi sulla reciprocità del rapporto. È un momento importante, considerando che Jacob, della propria relazione con Romy, è sempre stato più che soddisfatto; non ha mai intuito nulla, mai – in diciannove anni – avuto dubbi. La posizione di Romy, nel frattempo, si fa sempre più delicata: «mi basterebbe fare una chiamata per farti perdere tutto», le intima Samuel.
Babygirl, o Dove The Substance non è arrivato.
A inizio novembre avevamo parlato di The Substance, dai più (compresa Coralie Fargeat, la regista) venduto come un prodotto sostanzialmente femminista; una lettura che, come sottolineava l’autrice del post dedicato, lascia facilmente perplessi.
(Quello di Fargeat resta un film, a mio parere, silenziosamente più valido rispetto al significato che gli si affibbia, semplicemente perché più compiuto: utilizza il pretesto dei canoni estetici, delle pressioni e delle aspettative altrui per poi andare a raccontare altro, e cioè il difficile rapporto con sé e la difficile – e infatti presto fallita – ricerca di un equilibrio. Racconta l’egoismo, racconta un delirio di potere e di consumo, di cambiamento e perfezionamento perenne che forse è veramente la lettura giusta della nostra epoca, ma non necessariamente femminista).
A distanza di qualche mese, trovo che Babygirl sia in questi termini un film simile (mi riferisco non tanto alla trama quanto al fatto che sia anch’esso diretto da una donna, anch’esso a indagare la vita femminile) ma più brillante. The Substance si vende come femminista muovendo di fatto “solo” una critica all’esterno, alla società tutta e indistinta, proponendo un modello di donna totalmente succube delle dinamiche raccontate e senza alcuno spessore umano che, aldilà della bellezza, la caratterizzi. Mentre The Substance vuole fare molto perdendosi di fatto in un bicchier d’acqua, Babygirl riesce a proporre una strada alternativa.
Altro prodotto femminile sul femminile, il nuovo film di Halina Reijn – che lo ha scritto, diretto e prodotto – è capace di andare più a fondo. Scava nell’apparenza, nella struttura maschile e maschilista che regola i rapporti nel mondo da millenni, ci si immerge e ne esce originale, ricco di un’alternativa, di tante domande importanti. Ma soprattutto con un abbozzo di risposta circa l’enorme tema dell’emancipazione femminile – che all’inizio del film, per quelle che sono le premesse (e soprattutto la posizione professionale di Romy) daremmo facilmente per già risolta. Reijn, nelle successive due ore, ci dice che va bene il lavoro, va bene la carriera e vanno bene i soldi, ma c’è ancora una terra su cui il femminile misura nel quotidiano la propria invisibilità: il sesso.
Riconoscerlo è il primo grande merito della regista. Il secondo – non da meno – è dirigere una Nikole Kidman senza filtri, nella versione generalmente meno voluta di una donna: forte di un corpo consapevole di sé e dei propri gusti; capace di chiedere, di giocare e di autoregolarsi: di portare il proprio corpo senza cadere nella trappola del pudore (eccessivo) collettivamente richiestole.
«You’re confusing ambition with morality. They’re different»
Il terzo grande merito – sia dell’una che dell’altra, questa volta – è riuscire a distinguere i piani, a dare la misura della complessità del reale, a maggior ragione quando riguarda la donna. Non nutrire dubbi circa il fatto che avere fantasie sessuali imperniate su ruoli maschilisti e rivendicarle non abbia necessariamente rapporti di causalità con le relazioni umane nella vita vera, con la propria dignità nel quotidiano; ma che al limite, anzi, voglia dire fare proprie delle strutture di pensiero comuni (vedi il cane per Romy), entrarvi e dar loro luce nuova dall’interno, vivendole. Sta a significare: abbiamo vissuto in questi ruoli per talmente tanto tempo, che la loro negazione è troppo debole per costruire un’emancipazione vera; dall’interno, standoci e imparando a conoscerli, invece, forse si può cambiare meglio.
Dopo diciannove anni di relazione con Jacob, due ore di tensione sullo schermo, Romy ha un orgasmo vero – con il marito.
Brava Halina Reijn.