Paternal Leave - Recensione: Voler bene è una cosa seria
Sono annate particolarmente propizie per i film a tema padre-figlia, sia a livello internazionale (pensiamo al successo di Aftersun) che italiano (l’anno scorso con Il tempo che ci vuole, più recentemente con Una figlia).
Ma Paternal Leave è diverso, o meglio, non è solo questo. Parte da un mancato rapporto genitoriale per parlare di linguaggi, di geometrie, di aspettative, e di una modalità relazionale che da sempre esiste ma che, forse, oggi più che mai sembra quella prediletta.
Luca Marinelli si conferma ancora una volta, dopo M – Il figlio del secolo, abilissimo nell’interpretare ruoli scomodi ma che, proprio a causa della loro scomodità, vanno portati alla luce per essere estirpati.
“So you’re Anna’s daughter”. “Not just hers”.
Paternal Leave è una produzione italo-tedesca che nasce dalla collaborazione tra Alissa Jung, regista del film, e suo marito Luca Marinelli, qui protagonista. Ha già vinto il premio per la miglior regia al BCN Film Festival di quest’anno, ma sicuramente questo sarà solo il primo di tanti riconoscimenti.
La storia è quella di Leo (Juli Grabenhenrich), una quindicenne tedesca che sta attraversando il periodo più faticoso nella vita di un adolescente, quello in cui non si è più bambini e ci si inizia a comportare da adulti più degli adulti stessi.
Leo ha un peso in più rispetto agli altri: essere cresciuta senza padre, un padre di cui sente la mancanza come possono mancare solo le cose che non si sono mai conosciute.
Decisa e risoluta, mossa dalla rabbia quanto dalla disperazione, Leo è l’eroina solitaria che intraprende un viaggio verso una terra sconosciuta per conoscere suo padre.
In questo caso, la terra sconosciuta è la riviera romagnola, in particolare Marina Romea, che come molti hanno giustamente osservato rievoca proprio le atmosfere spoglie e oniriche della fotografia di Luigi Ghirri.
È un viaggio tanto archetipico quanto personale, dato che in questo caso il mostro da combattere e la prova da superare coincidono con la ricompensa promessa: Paolo (Luca Marinelli), il padre. L’arco temporale in cui si svolge la storia è di 72 ore, e naturalmente il film non è girato in piano sequenza; eppure il tempo in sala sembra dilatarsi, è palpabile quanto quell’incontro sia carico di tensione e di imbarazzo, ma si percepisce anche la fretta con cui Leo vuole conoscere il padre e con cui Paolo vuole dimenticarsi di Leo.
“I have a lot of questions, but I don’t know if I want to know the answers”.
In queste 72 ore, Leo scopre che a esserle mancato è il ruolo di un padre, non suo padre in quanto tale.
Paolo, infatti, è un bambino intrappolato in un corpo da trentacinquenne. Rivendica le sue scelte in nome di un ideale vuoto, un ideale che non esiste dato che la sua vita non ha
una direzione chiara. È un uomo scostante quanto le onde che rincorre per lavoro, dato che di mestiere fa l’istruttore di surf.
Paolo ha incastrato male le poche cose che doveva incastrare nella sua vita, tanto che queste rischiano di cadere a ogni piè sospinto, e Leo vorrebbe che la sua presenza inaspettata facesse crollare questa struttura precaria, per ricostruirla insieme, per creare spazio anche per lei.
A intricare questo rapporto mai nato, fin dal primo istante gioca un ruolo importante la distanza linguistica: Leo parla tedesco, Paolo l’italiano. L’uno è completamente estraneo all’altra.
Per capirsi si muovono su una terra di mezzo, l’inglese, eppure è chiaro che con la traduzione si trasmette solo la sostanza e mai le sfumature di quello che si vuole realmente dire.
Per questo è molto interessante come nel film vengono esplorati gli altri linguaggi, quelli universali e immediati che non hanno bisogno di parole, come la lingua del corpo e quella degli occhi.
“It seems you like getting things”. “It seems you like forgetting them”.
Il grande problema di Paolo è che sta vivendo la stessa vita di suo padre, e di suo nonno, e del padre di suo nonno.
Paolo è figlio di una cultura in cui se il papà si occupa del figlio per qualche ora si sente un babysitter non retribuito, una cultura in cui la priorità dell’uomo è rappresentata dal poter essere e fare quello che si vuole in ogni momento, senza dover dare spiegazioni.
Esprimere emozioni non è un’opzione, l’unica consentita è la rabbia. Anche chiedere scusa non rientra tra gli orizzonti possibili.
Gli uomini figli di questa mentalità vivono in una sorta di dimensione astorica, dove si agisce in un certo modo perché è sempre stato così, e spezzare una catena così comoda e costruita nei secoli è una fatica incommensurabile.
Il che non significa che il singolo uomo non prenda mai l’iniziativa per cercare di lavorare su se stesso e migliorare, ma è un’impresa completamente solitaria, con troppi pochi punti di riferimento, troppi pochi precedenti. Immaginare uno scenario alternativo, qualcosa che ancora non esiste, è ben diverso dal seguire un esempio.
La tragedia è che, attualmente, il mito del “non si deve niente a nessuno” e di una vita libera da richieste altrui è quello più in voga, indipendentemente sia dal tipo di relazione in cui non ci si vuole impegnare sia dal genere, dato che non si tratta più solo di uomini irresponsabili.
La costante riscrittura della propria auto-narrazione, che deve stare al passo con il presente tagliando completamente fuori il passato e chi ne ha fatto parte, è un atto che comporta sì un senso di libertà, ma anche una perdita enorme a livello di capitale affettivo.
Io credo che Paternal Leave voglia far riflettere proprio su questo.
Davvero l’unico modo che conosciamo per declinare la libertà è recidere legami in continuazione e ignorare le nostre responsabilità?
In che modo possiamo preservarla e renderla compatibile con chi ci chiede conto delle nostre azioni?
E perché proprio adesso, in questa epoca storica, sembra dilagare un iper individualismo che ci fa temere l’impegno nelle relazioni più di ogni altra cosa?
Mentre pensiamo a quali potrebbero essere le risposte più adatte per noi, la speranza è che, col tempo, gli uomini che provano a essere migliori dei propri genitori producano nel tempo un cambiamento davvero strutturale e radicale a livello collettivo, e che possano tracciare delle orme talmente nitide che agli uomini di domani basterà camminarci sopra.
Tra parentesi, se volete farvi un regalo andate ad ascoltare Solo per gioco – brano originale che Giorgio Poi ha scritto per il film – nella versione con Marinelli.