Opus - Recensione: Perché è un progetto fallito

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Le premesse del film sembravano molto promettenti, a partire da Ayo Edebiri sullo schermo

con John Malkovich, una trama avvincente che doveva far luce sulle dinamiche settarie

dei fandom e garantire, come ogni horror rispettabile, la suspense e il jumpscare.

Per tutti questi fattori, le mie aspettative erano alte, ma sono state una a una disattese, e

quello che si presentava come un esperimento potenzialmente molto creativo si è rivelato un

totale fallimento.

Procediamo con ordine e cerchiamo di sviscerare cosa è andato storto.


La trama


Ayo Edebiri – che abbiamo conosciuto la prima volta in The Bear, poi in Bottoms – interpreta

Ariel Ecton, una giovane giornalista volenterosa ma eclissata dal paternalismo e dal

protagonismo del proprio capo, Stan.

Dopo quasi trent’anni di silenzio, torna sulle scene con un album inedito Alfred Moretti

(John Malkovich), la leggenda della musica pop che ha segnato la vita di più generazioni.


Per inaugurare il suo nuovo progetto musicale, Moretti sceglie un gruppo limitato ed

eterogeneo di persone che avranno l’opportunità di soggiornare presso la sua tenuta nello

Utah e assistere a delle sessioni di ascolto dell’album.

Tra questi prescelti figurano Stan e, in modo del tutto inspiegabile, Ariel.

E nella cesta in cui era contenuto il loro invito, un altro elemento indecifrabile: il Libro del

Livello.


Una volta che gli ospiti vengono accolti presso quello che sembra a tutti gli effetti un isolato

resort di benessere, in mezzo al deserto del West americano, i primi dubbi iniziano a farsi

timidamente strada dentro Ariel, che pure subisce il fascino e la seduzione di Moretti e

soprattutto della sua musica.

Ma, da giornalista professionista, prende appunti e, soprattutto, pare essere l’unica a

osservare davvero.


Il Livellismo


Il cantante vive in simbiosi con decine di assistenti/fan, i quali controllano i nuovi arrivati

giorno e notte – letteralmente. Lui è un re-giullare, loro le sue api operaie.

Ariel scopre che l’intera comunità osserva e pratica dichiaratamente la religione del

Livellismo, la quale ha che vedere col potenziale umano (come effettivamente accade per

la maggior parte dei movimenti New Age) e con la fondamentale credenza in una forza

divina che, a turno, invade ogni individuo e permette di incarnare momentaneamente un

dio creativo e creatore.


Ma a fronte dell’importanza che il Livellismo arriva ad assumere nel quadro generale della

storia, e soprattutto del finale, i temi di questo movimento e la sua struttura vengono

eccessivamente trascurati, lasciando aperte troppe domande.


Moretti, ad esempio, afferma che la religione e il Libro sono preesistenti rispetto a lui, eppure

lui solo sembra interpretare il severo guardiano di questa forza divina, e anzi la forza divina

stessa.

Lui che coi suoi outfit appariscenti si distingue da tutti gli altri – risultando in un misto tra il

Dalai Lama ed Elton John – è il guru, il fondatore, il dio, un semplice adepto? Chi venerano

davvero i Livellisti? Cosa c’è scritto in quel libro per aver conquistato i cuori di così tante

persone?


Il Livellismo si presenta come una religione che “non fa nulla” (i.e. non segue particolari

cerimonie o rituali), eppure ciò sembra essere smentito dal momento della cena, la sera

dell’arrivo, insieme a quello che Ariel scorge quando riesce a fuggire dagli occhi indiscreti

della concierge.

Il loro motto è “teach them young”, ma quali di preciso sono gli insegnamenti che vengono

impartiti?


Si intuisce che lo scheletro di elementi settari è presente, dall’attenzione per un certo tipo di

purezza fisica al totale distacco dal mondo esterno; a mancare è il cuore dottrinale del movimento

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Nell’economia di un film che vorrebbe, almeno sulla carta, aprire un dibattito sulla

pericolosità dei fandom, sulla loro inquietante prossimità alle sette religiose, sulla

giustificazione ingiustificata che tendiamo a dare a persone che non conosciamo, il

parallelismo tra groupies e fedeli o tra guru e celebrità risulta davvero troppo flebile

per poter tracciare una conclusione sensata.


Un Midsommar sottomarca


Si potrebbe porre Opus in una continuità tematica con The Sweet East (2023), attualmente

disponibile su MUBI, che affronta il viaggio di un’adolescente nelle varie correnti estreme

che attraversano gli Stati Uniti, così diverse eppure così simili nei loro meccanismi.

Una tappa che sarebbe idealmente possibile aggiungere a quelle percorse dalla

protagonista è proprio la villa di Moretti, che condensa in delle coordinate geografiche

precise un tipo di estremismo in realtà trasversale, e anzi spesso relegato agli spazi digitali.


E ancora, gli sprazzi umoristici in mezzo alla tragedia ricordano l’atmosfera di Bodies

Bodies Bodies (2022), la commedia horror di Halina Reijn in cui Rachel Sennott e Pete

Davidson riescono a costituire l’unico motivo apprezzabile di un film che altrimenti sarebbe

un totale cliché – così come in questo caso la recitazione di Edebiri e Malkovich

costituiscono la sola nota positiva.


Ma se questi due lavori sono collegabili solo a posteriori, a essere ben più lampante è il

riferimento immediato a un altro film: Midsommar (2019). Tutto, in Opus, sembra rievocare

quella stessa identica atmosfera e narrazione, sia nei contenuti che nelle forme.

Innanzitutto i due film si snodano con la medesima struttura e il medesimo ritmo, in un

climax di suspence che va da una situazione stabile, alle premesse per una catastrofe, fino

ad arrivare alla tragedia vera e propria.


Condividono anche il tema della congregazione religiosa, che però in Midsommar è inserito

in un contesto ben definito di folklore, di tradizioni popolari, di riti religiosi codificati che

seguono regole precise nella loro esecuzione.

Questa cornice ha reso Midsommar un film riconoscibile e davvero unico nel suo genere,

per cui citarlo implicitamente ma in modo così inconfutabile si avvicina pericolosamente al

plagio.


Opus sembrava voler partire dalle premesse di Midsommar per traslarle al culto della

celebrità, quindi usare il suo stesso linguaggio (di horror, di sacrifici umani, di comunità

inquietanti) per parlare d’altro.

E sarebbe stato veramente curioso. Peccato che abbia usato sì la stessa lingua, ma solo per

accennare timidamente a un contenuto diverso, senza marcare invece le differenze. In

Midsommar tutto aveva un significato, mentre le azioni di Moretti e dei suoi seguaci

appaiono sconnesse tra loro e non riconducibili a un quadro di senso più ampio:

l’obiettivo è la vendetta rispetto ai propri nemici oppure il semplice far parlare di sé?

La logica dietro alla malvagità è troppo debole, troppo superficiale è il suo legame col

Livellismo.

E poi è incontrovertibile che anche l’ambientazione ricordi visivamente il villaggio svedese,

dalla capanna proibita alle coroncine di fiori che “incorniciano” il viso.


Iniziare dalla fine


Quello che mi chiedo è perché il finale sia stato così trascurato, e il dubbio si inserisce nella

vera domanda di fondo: si poteva realizzare questo film diversamente da come è stato fatto?

Non sarebbe stato forse più consono farlo iniziare esattamente dal plot twist finale, dove

è stato interrotto, sviluppandolo come un thriller puramente psicologico?


Forse, così avrebbe potuto indagare a fondo le dinamiche psicologiche sia di Moretti che

dei suoi sostenitori, chiarire le motivazioni del suo progetto e i messaggi veicolati dalla loro

religione.

Sarebbe stato un film totalmente diverso, certo. Ma il punto è che di una copia riuscita

male non se ne sentiva proprio il bisogno.