Oh Canada - "Le bugie che viviamo" o, Dilemma sulla verità e la redenzione di Paul Schrader

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"Alla fine siamo tutti cantastorie".


Con l’obiettivo di dare un ultimo saluto all’amico da poco scomparso o forse con la speranza di vedere un'ultima volta attraverso i suoi occhi, Paul Schrader si cimenta nell’adattamento del romanzo di Russell Banks “I Tradimenti”, cercando di tradurre attraverso la sua lente la storia elaborata dalla penna del compagno. 

 

Ci presenta Leonard Fife, un documentarista la cui reputazione è illibata, ma il cui buon nome potrebbe essere minacciato e lentamente sgretolato dal peso di alcuni segreti gelosamente custoditi per tutta la vita.


Richard Gere si ritrova con il regista dopo la collaborazione in American Gigolò. 

Interpreta l'anziano Fife, ora vicino alla morte e circondato da moglie, studenti e colleghi. Invece di crogiolarsi nella gloria del lavoro della sua vita, Fife sceglie di aprire il vaso di Pandora: la sua è in realtà una vita segnata da tradimenti, menzogne e compromessi. 


Il film si apre con un allestimento simile a quello di un documentario, dove i suoi ex studenti si riuniscono per intervistarlo sulla sua illustre carriera. Una volta davanti alla telecamera Fife inizia a strappare, uno alla volta, gli strati mitologici che si era costruito o che gli si erano appiccicati addosso negli anni. 

"Ho fatto carriera convincendo la gente a dirmi la verità," dichiara, "ora è il mio turno." 


La pellicola traccia un parallelo convincente tra l'arte del documentario e l'arte dell'auto-esame, utilizzando la cinepresa stessa come confessore e interrogatore.

Il film prosegue come un rituale di purificazione, in cui i peccati e i rimpianti di Fife sono messi a nudo davanti a una telecamera che non trema mai.

Una catarsi possibile perché il girarsi a guardare sembra essere senza conseguenze ora che la candela sta per estinguersi e sta per sopraggiungere il buio.


Schrader, la cui carriera è stata plasmata dall'esplorazione delle oscure profondità della psicologia umana, riporta in primo piano il suo fascino per i personaggi imperfetti, isolati e spesso auto-distruttivi (come in Taxi Driver e First Reformed). Tuttavia in Oh Canada questa sembra avere un sapore diverso: non è intrisa di rabbia e nemmeno è intensa autoflagellazione, ma piuttosto una contemplativa e quasi giocosa dissezione dell’eredità del regista. C'è una sorta di umorismo e una strana leggerezza. Schrader, a quanto pare, è più confuso che torturato dall'idea di essere visto come un "maestro", e questo film diventa, in parte, una lettera ai fan che lo hanno elevato a quello status. Quasi a dire “Calmatevi cazzo, abbassate i riflettori”.


La struttura di Oh Canada

Mentre Fife si eviscera, il film muta costantemente forma: dalle sequenze in bianco e nero ai colori saturi, imita l'estetica dei documentari old-school aggiungendo il commento fuori campo. È come se Schrader stesse cercando di allontanare lo spettatore dall'idea di verità oggettiva (sempre che questa possa esistere), sottolineando che anche i nostri ricordi più cari possono essere alterati. 

La macchina da presa stessa diventa testimone inaffidabile

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L’inattendibilità della memoria

I personaggi che appaiono nei flashback di Fife sono spesso ritratti da attori diversi, creando un senso di dissonanza tra passato e presente

Fife stesso è interpretato sia da Richard Gere che da Jacob Elordi in diversi periodi di tempo, ma c'è qualcosa di inquietante su come il vecchio Fife non riesca a mettere a fuoco la sua stessa immagine in un periodo specifico nel tempo e nello spazio - i suoi sé presenti e passati si accavallano, sfarfallano dentro e fuori fuoco. Scorre il ricordo visivo della persona che era una volta, ma che non è più in grado di afferrare pienamente.

Le facce si trasformano, gli attori appaiono in ruoli multipli e la cronologia diventa volutamente frammentata. Questa manipolazione visiva è più di un dispositivo formale; vuole sottolineare che i nostri ricordi, come le nostre identità, sono fluidi e incerti

Mentre Fife cerca di accettare la sua vita, Schrader suggerisce che anche la più autoriflessiva confessione è soggetta alle distorsioni del tempo e della prospettiva. 

La memoria, in Oh Canada, non è mai uno specchio chiaro ma una lente fratturata, piena di contraddizioni, lacune e momenti che rifiutano di rimanere al loro posto.


Le interruzioni della confessione: la negazione della verità

In tutto questo c’è un aspetto estremamente irritante. Confessare sembra un’impresa impossibile perché le interruzioni sono continue. Da spettatrice e sociologa non riuscivo a stare ferma sulla poltrona finché, ad un certo punto, ho immaginato potesse voler dire qualcosa. 

Questi non sono solo strumenti narrativi, ma sottolineano la difficoltà di affrontare la verità, non solo per il protagonista, ma per tutti quelli che la circondano.

Possiamo respirare la disconnessione tra l'auto-percezione di Fife e quella del suo entourage. Questi ultimi rifiutano di riconoscere la sua personale valutazione, trattando le sue rivelazioni come qualcosa di distorto, qualcosa che non possono o non vogliono sentire. Mentre Fife parla, le sue parole vengono assorbite, alterate e reinterpretate da altri, creando una narrazione completamente nuova. Questa distorsione evidenzia la difficoltà non solo di raccontare la propria storia, ma di confrontarsi veramente con il passato quando coloro che ti circondano sono riluttanti o incapaci di riceverlo come era inteso. 

Smarriamo così la narrazione iniziale lungo la strada, lost in translation.


Quindi qual è la verità?

Come possiamo mai essere sicuri della verità? E alla fine, ha importanza?

L'approccio di Schrader non è tanto quello di fornire risposte, ma piuttosto di porre domande: sull'identità, sul patrimonio e sui modi in cui costruiamo e ricostruiamo le nostre storie. Mentre Fife affronta la sua stessa mortalità, è costretto a fare i conti con la domanda finale.


Il tipo di film che ti farà dire "Questo è tutto?" o "Questo è tutto."