In questa recensione non troverete parole come “testamento”, “fallimento” o altri sprechi linguistici di chi deve nascondere non tanto il fatto di non aver capito il film (che male ci sarebbe?), quando l’accontentarsi di non averci provato. Chi argomenterà senilità starà prendendo una scorciatoia. Chi nonnismo uguale, con pure un pizzico di rancore. E a chi dirà “troppo”, beh, chiediamo: “cosa vuol dire troppo?”.
Anche Apocalypse Now era “troppo”. Però i due film non sono paragonabili, vero? E perché?
La cosa incredibilmente fastidiosa è che quasi chiunque, nel recensire Megalopolis, non ha fatto altro che andare a parare sempre verso le sue conseguenze: testamento suicida, follia milionaria, etc etc. Ma poi il film viene raccontato in una sinossi e un paio di “temi” di facciata riassunti in “utopia, “Marco Aurelio” e “tempo”.
Che fastidio, le opinioni.
Questo non è un film perfetto, ci mancherebbe altro. Ma ci stiamo spingendo davvero ai limiti dell’umano discorso, limiti che probabilmente un uomo visualizza solo alla fine della sua vita, e pretendere ponderazione pare una critica che sa quanto meno di imparaticcio.
Quindi, se non altro, prima di rigettare quelle immagini meravigliose che non si sono capite (chi vi scrive, in primis, non le ha capite), proviamo a chiederci cos’ha voluto dire Coppola. Per davvero però: cosa vuol dire tempo? Se il tempo è una dimensione dello spazio, e se noi costituiamo lo spazio, cosa vuol dire fermare il tempo?
Come si crea quella “fonte meravigliosa” che è il Mégalon? Amore + Eidetica?
Ci siamo chiesti chi è stata la Eleanor a cui il film è dedicato? È nel film? Allora Cesar chi è?
Perché Shakespeare? Perché Aurelio? Perché Hesse?
Ironico pensare che poi ci sia chi taccia quest’opera di ingenuità: che non ci si voglia porre queste domande può anche andar bene; ma allora non si pretenda altro che “Cemento! Cemento! Cemento!” o “Acciaio! Acciaio! Acciaio!”.
E il Mégalon resterà davvero solo un’utopia.
Ma partiamo dalla base, dall’assunto su cui si basa il film: cosa accadrebbe se portassimo l’Antica Roma ai giorni nostri (o meglio, in un prossimo futuro)? La risposta? Non ci serve. Parliamo di civiltà: i due poli sono utili per guardare cosa c’è nel mezzo, dal momento che, come dice lo stesso protagonista del film, “un’utopia non deve offrire soluzioni, ma porre le domande giuste”.
Perciò, se guardiamo con pazienza dentro questo calderone di secoli e secoli di Storia, possiamo notare come tutto l’agire umano sia stato direzionato verso un’impalpabilità che, con una verve di autoconsapevolezza cinematografica che da Coppola non ci si poteva che aspettare, appare per la prima volta concreta e tastabile sotto forma di Mégalon, materiale fantascientifico dalle doti infinite, ibrido biotecnologico che, come tale, incarna un principio anti-dualistico nella costruzione della realtà – a questo ci arriviamo a breve, e concepito dal genio di Ceasr Catilina, architetto del domani. E se è innegabile che Cesar sia da considerarsi un utopista, va anche detto che questo Mégalon fornisce al suo operato una convincente dose di pragmatismo: esiste, e fa un sacco di cose.
Il Mégalon può infatti essere il cemento delle città che costruiamo, oppure la pelle che abitiamo (e quest’analogia dovrebbe già dire parecchio). Può essere, letteralmente, tutto. E il grande paradosso è che suddetto “Tutto” non solo, in quanto esseri viventi, lo viviamo, ma, in quanto esseri autocoscienti, lo creiamo. Citando sempre il visionario Cesar: “se è la nostra mente a creare gli déi, allora perché non utilizzarne direttamente il potere?”. Tradotto: se abbiamo già tutto, se siamo il Tutto, perché scinderlo, categorizzarlo, contrapporlo? Perché dividere fra bene e male, bianco e nero, spazio e tempo? Detto in termini “megalopolisiani”, perché separare Natura e Cultura?
È garantito, si muore per “eccesso di civiltà”. Per questo il dogma natura-cultura è obsoleto, e per questo la missione di Catilina è annullarlo, lasciarne traccia come retaggio della Storia e niente di più, perché se la natura crea l’uomo e l’uomo la civiltà, allora la civiltà non è che da considerarsi come una nuova natura. In tal senso, il Mégalon non è né scienza né filosofia, spazio o tempo, bensì entrambe le parti: ecco allora il perché di quei sogni maldestri e anfetaminici di Cesar, dove le città del domani crescono come nervature del fogliame (natura + cultura), rappresentate dalle visioni degli split screen di Coppola; un Coppola che si rifà ai Corman, Lang, Hitchcock, Welles, Vidor, Gilliam e chi più ne ha più ne metta, e che tenta (attenzione, non è detto che ci riesca) anche di proiettare in avanti, con una messinscena che è sì estrema, ma di una plasticità più vicina all’illustrazione che alla regia, nel segno di un’intermedialità da nuovo millennio dov’è il Cinema a saccheggiare le diverse forme di rappresentazione iconica e non viceversa: somme di immagini, sovra o giustapposte, affiancate a mo’ di vignetta: è sempre uno show-don’t-tell, per carità, ma forse in forme a cui non eravamo del tutto alfabetizzati in quanto spettatori cinematografici.
Difficile, allora, rimanere intatti davanti a queste visioni: siamo abituati a digerirle nelle dimensioni di uno schermo di cellulare. Perciò, della forma, che se ne riparli tra qualche anno, quando qualcun altro, più pratico di noi con macchine da presa e set cinematografici, potrà aver tirato qualche somma. Concentriamoci su quello che abbiamo adesso: un film gigantesco, programmaticamente come da titolo. Una speranza, anche perché a cos’altro ci si può affidare? E dei difetti, certo.
Perché c’è un grosso neo, qui, e si chiama Popolo: il genio è unico, certo, ma la sua opera deve essere collettiva. Megalopolis racconta la più alta élite intellettuale e politica che salva il mondo e la civiltà, mentre la massa, dal canto suo, accetta passiva. Troppo facile per un film del genere, che da progressista come vuol essere rischia di risultare forse più accelerazionista.
Le rivoluzioni non sono più possibili dal basso? Difficile credere che Coppola lo pensi davvero, ma in questa vertigine teoretica, l’estasi della creazione sembra aver semplificato un passaggio cruciale, ossia il vaglio popolare. E questa macchina, a fine film, col sibilo della realtà che torna pian piano a ronzare nelle orecchie, rende un po’ meno verosimili le miracolose doti del Mégalon.
Peccato, perché per chi vi scrive questo è un grande film. Cervellotico. Ipertrofico. Sontuoso. Tacciato di ingenuità senile? Fanatismo entusiasta? Sarà, ma qui c’è la gioia del cinema molto più che in film come Killers of the Flower Moon.
E per una volta, dateci una pausa dal disfattismo e concedeteci di credere che l’uomo sia meraviglioso. Abbiamo inventato il tempo costruendo lo spazio: non c’è niente che non possiamo fare.