LA VOCE DI GAZA - Recensione: The voice of Hind Rajab e Qui vit encore
Di Orfeo rimase solo la voce: Virgilio racconta che le Baccanti, da lui rifiutate, ne fecero a pezzi il corpo, gettandone la testa nel fiume Ebro. Ma trasportata dalle correnti, la voce di Orfeo continuò a chiamare il nome dell’amata Euridice, risuonando in tutta la valle anche oltre la sua morte.
Anche di Hind Rajab, uccisa non dalle mitiche Baccanti ma dall’esercito israeliano, è rimasta solo la voce, che risuona ora nelle sale cinematografiche.
Hind era una bambina palestinese di cinque anni, e il film di Kaouther Ben Hania, vincitore del Leone d’Argento all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta le sue ultime ore di vita attraverso la telefonata con gli operatori della Mezzaluna Rossa che hanno cercato di salvarla (qui la ricostruzione dettagliata dei fatti secondo l’inchiesta del «Washington Post»).
Non mancano esempi cinematografici che mettono in primo piano la voce: Her di Spike Jonze, il primo episodio di L’amore di Roberto Rossellini e The Human Voice di Pedro Almodovar (entrambi adattamenti dell’opera teatrale di Jean Cocteau). Ma The voice of Hind Rajab è un caso a sé in quanto compie uno scarto ontologico, perché la voce che fa da protagonista (tanto da occupare lo spazio del titolo) è vera. I personaggi che agiscono sullo schermo sono attori che rimettono in scena fatti realmente accaduti, ripetendo parole che persone vere hanno pronunciato; mentre la voce di Hind è autentica, è esattamente quella reale, non c’è alcun dispositivo finzionale a fungere da intermediario. E questo non è l’unico elemento della realtà a entrare nel film: in alcune sequenze alle figure degli interpreti sono sovrapposte, attraverso la ripresa di un cellulare, quelle dei veri operatori.
Proprio per questo, al di là dell’importanza della storia trattata, il film è interessante. Perché innova e ci fa porre un quesito teorico: quale è lo statuto di quest’opera d’arte? Come consideriamo un film in cui elementi di finzione, o meglio di rappresentazione finzionale, sono intarsiati da elementi reali? È fiction? È documentario? Nessuno dei due, verrebbe da rispondere. Dove lo collochiamo?
Se su questo ci sono dubbi, certo è che l’esperienza artistica amplifica la realtà, facendo conoscere questa storia a un numero più ampio di persone (per tornare al mito di Orfeo, è l’arte che permette all’uomo di continuare a vivere anche dopo la morte), e suscitando in chi la guarda emozioni che non lo avrebbero scosso altrettanto se la vicenda fosse stata distrattamente letta tra tutte le tragedie che accadono ogni giorno. C’è chi ha parlato di pornografia del dolore, ma è un’etichetta che mal si appone a questo film: certo, Ben Hania non edulcora la vicenda (ed è giusto così, altrimenti l’avrebbe tradita) ma neanche indugia su momenti patetici. Proprio perché la storia è reale non la si può accusare di aver esagerato: non ha inventato niente.
Un film che si basa solo e soltanto su una telefonata deve essere costruito magistralmente per poter reggere senza annoiare il proprio pubblico: questo lo è. Dato che lo spettatore conosce già la conclusione della vicenda narrata e viene così meno la curiosità di sapere come va a finire, la tensione è tenuta costante dal conflitto tra gli operatori della Mezzaluna Rossa. Questi hanno il comune obiettivo di salvare la bambina, ma nelle loro modalità d’intervento si creano come due schieramenti: uno emotivo, l’altro razionale. E in questa caratterizzazione dei personaggi Ben Hania riesce a delineare delle emotività complesse, mostrando come al dolore, all’emergenza, alla responsabilità gli uomini e le donne reagiscono in modi diversi – senza mai condannare nessuno di questi.
Insomma, The voice of Hind Rajab porta con sé tante emozioni (non solo negative) e tanti punti di domanda, ma anche una certezza (per quanto sembrerà banale), quasi una pretesa: che il genocidio che sta avvenendo in Palestina è emotivamente incomprensibile e razionalmente disumano, e deve avere fine adesso.
Se di Hind Rajab e di tutte le persone morte a Gaza restano solo le voci, le foto, i video, della città stessa cosa rimane?
Secondo il documentario Qui vit encore (Who is still alive) di Nicolas Wadimoff soltanto della vernice bianca su un pavimento nero.
Hind è, levianamente, una sommersa del genocidio in atto. In questo documentario presentato durante le Giornate degli Autori prendono la parola invece i salvati: nove rifugiati palestinesi, cinque donne e quattro uomini.
Non numeri, ma persone reali, con una voce (e in questo caso ancora un corpo per poterla proferire), con una famiglia, con un lavoro, con un diploma in conservatorio, con la voglia, a fine giornata, di andare al mare.
L’impianto è visivamente molto simile alla scenografia di Dogville di Lars Von Trier (un pavimento nero con le linee delle case tracciate di bianco) ma l’estetica ne è totalmente risemantizzata: le case, considerate «un membro della famiglia, il membro più importante», sono state tutte rase al suolo. «Gaza non esiste più», ormai può essere solo disegnata.
Questi nove sopravvissuti mettono a nudo la loro interiorità ed esprimono in modo sorprendentemente lucido e consapevole il loro stato d’animo, in un percorso artistico che è anche una sorta di elaborazione del lutto: «non riesco più a creare un ricordo che mi rimanga dentro», «adesso, quando parlo di speranza so che in fondo sono un bugiardo», «quanto ancora può sopportare un cuore? Non so», «ogni pietra caduta ha fatto crollare anche una parte di noi».
The voice of Hind Rajab e Qui vit encore sono due film molto diversi, che trasmettono però sensazioni simili: dolore, rabbia, incredulità, scoramento. Ma allo stesso tempo è come se emanassero una luce. Portano lo spettatore – che assiste a queste storie da una parte di mondo privilegiata – a riflettere, a interrogare la propria umanità, a rendersi conto che questo riguarda anche lui e quindi a chiedersi “cosa posso fare io? Perché qualcosa devo pur fare”, a desiderare davvero di essere migliore e di contribuire alla costruzione di un mondo più giusto di questo, – come ha detto Wadimoff – «per restare vivi, tanto laggiù quanto qui».
