La Trama Fenicia - Recensione: Attacco alla simmetria

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Uscito a Cannes nel maggio 2024, tra applausi e perplessità, La trama fenicia, ultima opera di Wes Anderson, è forse la sua creazione più enigmatica e inquieta, un possibile punto di svolta, soprattutto per i suoi lavori futuri. Una riflessione metacinematografica, nella quale l’artista mette in discussione se stesso e quello stile che ormai sembra un marchio di fabbrica, chiedendosi se la sua arte sia ancora in grado di veicolare senso, oppure se la forma abbia prevalso vanificando il significato.


LA SINOSSI


Anatole “Zsa-Zsa” Korda è un magnate, un artista, un padre, che vive con nove figli maschi, intrattenendo un rapporto patriarcale e gerarchico. Scampato  a sei6 attentati, rifugge la morte e i nemici, ed è ossessionato  dalla costruzione di un progetto tanto segreto quanto mastodontico, custodito all’interno di una serie di valigette. Seguiremo il protagonista in questo suo ambizioso “piano fenicio”, nel tentativo di riallacciare i rapporti con l’unica figlia, intenzionata a farsi suora, distante tanto fisicamente quanto emotivamente, ma designata come unica ereditiera dal nostro Zsa-Zsa.


TRA NOVITÀ E DÈJÀ VU, TRA MANIERISMO E AUTENTICITÀ


Quando vediamo un nuovo film di Wes Anderson la sensazione di già visto ci assale: colori pastello, carrellate orizzontali, e quella ossessione, che ormai lo identifica, per la simmetria e per il retrò. Anche i contenuti sembrano spesso girare intorno a specifiche tematiche, famiglia disfunzionale e ragazzi responsabili opposti ad adulti infantili, per citarne due. 

Nella ripetizione risiede il suo più grande fascino, ma anche il suo più grande limite.

Trattare temi sociali e muovere delle critiche al sistema mentre si è in coda in pasticceria, divorando con gli occhi dei bellissimi macarons, rischia di risultare una scelta inefficace. Le prime volte può funzionare grazie alla sua paradossalità, ma ben presto l’effetto sorpresa svanisce, le parole si perdono e rimangono solo quei bellissimi dolci in vetrina.

Tuttavia, la trama fenicia sembra introdurre elementi di novità rispetto al passato, pur rimanendo un film “wesandersoniano”; possiamo parlare di un ritorno a casa, anche se questa volta abbiamo preso una strada insolita per arrivarci. Questo perché decide di sottoporre a critica ciò che lo identifica meglio, ovvero il suo stile.


La sua grammatica non viene trasformata e gli stilemi sono sempre lì, presenti, anche se questa volta sembra che si sia concesso delle libertà in più.

Si percepisce il desiderio di rompere con il passato, che prende forma in scene caotiche e sporche che interrompono la fluidità della narrazione e inaugurano elementi di rottura nella poetica del regista. Wes sembra  dire che è pronto a mostrare le imperfezioni della sua arte al mondo, forse a decostruirla. Finalmente.

Non cambia la forma, però si chiede se abbia ancora un senso.


Consapevole del fatto che il suo cinema, visivamente riconoscibile e impeccabile, potrebbe cadere nell’inconsistenza, corre ai ripari inserendo nell'immagine un nuovo elemento come il disordine, e lo fa proprio attraverso l’esasperazione dell’ordine.

L’elemento di autenticità risiede in questo, all’uso della simmetria per dimostrarci che in realtà essa è inadatta a controllare il caos, a proteggerci. Come se il regista texano avesse raggiunto una consapevolezza diversa.


L’ORDINE NON È UN RIFUGIO MA UNA GABBIA


Nei primi lavori di Anderson l’architettura e  e la costruzione scenica, la simmetria servivano per sopravvivere a una disgregazione familiare (The Royal Tenembaums) o per sottrarsi alla violenza del mondo adulto (Moonrise Kingdom); mentre nella trama fenicia, queste assumono un valore opposto. Vediamo perché.

La casa del magnate è una struttura estremamente geometrica, ma non emana calore: somiglia piuttosto a un panopticon, in cui tiene reclusi i propri figli.

Korda manifesta un’inclinazione al controllo che rasenta il patologico, e sembra essere un alter ego del regista: entrambi sono usati dall’ordine, lo reiterano come ne fossero vittime a loro volta. La loro ricerca della perfezione non si presenta, quindi, come un è più tentativo di cura, ma bensì come una una maschera che nasconde un’ossessione maniacale per il controllo.

Tutti e due Entrambi vogliono costruire strutture, e lo fanno in modo rituale. Il problema è che quei riti sembrano aver perso la loro funzione, rendendo queste costruzioni artificiali e prive di significato.

Le valigette, tutte perfettamente ordinate, rappresentano l’incompiutezza: l’impossibile tentativo di dare forma a ciò che forma non ha. Simboleggiano l’ossessione del nostro magnate, ingabbiato dal proprio metodo. Korda, come Wes Anderson, si domanda: “sono ancora in grado di comunicare, o sono prigioniero del modo in cui lo faccio?


TRAGEDIA E CATARSI


La dimensione tragica del film è già annunciata dal titolo, che richiama Le Fenicie di Euripide, ma non si limita a questo.

Il protagonista pecca di hybris, e come tutti gli altri personaggi, sembra cosciente della propria finzione: sa di essere sul set, imprigionato nel proprio ruolo dal fato.

Il conflitto inoltre nasce da una colpa originaria che non conosciamo ma di cui vediamo gli effetti. Spetterà a Clio Korda – nome non casuale: i greci chiamavano così la musa della storia, della memoria e dell’eredità – decidere se accettare o no tale eredità fardello paterno..


Padri che non sanno amare e figli che non sanno perdonare. Ecco, la tragedia è servita.

Va però detto che, a differenza della “versione” aristotelica, qui non c’è catarsi. I personaggi, eccezion fatta per la figlia, non mutano; non c’è punizione o riconciliazione, né  giustizia o scioglimento dell’intreccio. In poche parole:, manca un epilogo.

La purificazione, in realtà, c’è, ma avviene nei titoli di coda, e vale solo per lo spettatore. A film finito, infatti, possiamo contemplare delle opere d’arte che incorniciano ed esprimono in forma allegorica i frammenti di ciò che abbiamo appena visto, dando un ordine simbolico al caos e al dolore e rendendolo leggibile.


SIMBOLI E ALLEGORIE


Il film è forse tra i più ricchi di simboli per quanto riguarda la simbologia; e le sequenze oniriche in bianco e nero ne sono l’esempio. Il cervo offerto in sacrificio, che sanguina monete, può simboleggiare la desacralizzazione della natura, non più fine, ma mezzo di speculazione economica.

All’interno del film coesistono molteplici rimandi: si trovano riferimenti alla religione pagana, al dio vendicativo del vecchio testamento  (Zio Melquiades) e a quello del nuovo, al consesso democratico e alla sua inutilità, al colonialismo, alla resistenza rivoluzionaria che ha perso la fede nei propri ideali e a al capitalismo come pantomima. 

Va detto, però, che, come in tutta la sua precedente filmografia, questi significati non sono urlati, ma sussurrati, e spesso si può avere la sensazione di andare fuori pista.

 


TIRANDO LE SOMME


Se ami Wes ti troverai a casa: qui c’è tutto quello che lo ha reso inconfondibile. Se invece hai sempre faticato a digerire il suo cinema, questa potrebbe essere l’occasione per scoprirvi una profondità inedita – a patto però di ricordare che si tratta pur sempre di variazioni sul tema, non di trasformazioni radicali.