La città proibita - un film straniero ma non troppo

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Kung- fu all’amatriciana avrebbe dovuto essere il titolo del terzo lavoro cinematografico di Gabriele Mainetti

Un titolo che racchiude le tendenze di una cinematografia coerente e colma di rimandi alla cultura filmica estera, pur rimanendo anche fortemente italiana (o per meglio dire, romana).

Ma anche un titolo che nella sua stramberia quasi ridicola rivela uno dei problemi maggiori del film, come vedremo più avanti.

La mia paura era già tanta ancor prima di vedere il film, poiché Mainetti con esso ha deciso di toccare uno dei miei generi cinematografici preferiti: il wuxia-pian, o semplicemente il cinema di kung-fu hongkonghese.

Ma nulla è stato snaturato, anzi, l'omaggio è riuscito, poiché la passione per l’argomento del regista è davvero sincera.

Mainetti dimostra il suo amore per il genere, e soprattutto per la figura di Bruce Lee, nume tutelare manifesto già dalla prima riuscitissima scena d’azione, che omaggia l’ascesa nella torre colma di nemici de L'ultimo combattimento di Chen.

Quello stesso film che diede a Tarantino l’ispirazione per la tuta indossata da Uma Thurman in Kill Bill e, parlando di citazionismo, si può dire che lo stesso Mainetti si ispiri al regista americano.

Ciò che è certo è che l’azione è girata davvero bene, se ne comprende la frenesia, senza che la messa in scena confonda lo spettatore su cosa stia accadendo.


Anche la violenza non manca, e si manifesta in forme piuttosto creative, a cui il pubblico italiano forse è ancora troppo impreparato (nel cinema in cui ero echeggiavano spesso i versi di disgusto degli spettatori in scene come quella della grattugia).

La scelta della famosa stunt woman cinese Yaxi Lui nei panni della protagonista Mei aumenta la veridicità degli scontri, ed amplia l’omaggio del regista alla piacevole tendenza del cinema d’azione hongkonghese di dare spazio a figure femminili forti come protagoniste di scontri all’ultimo sangue (non a caso l’anteprima del film è avvenuta proprio l’8 marzo).

E dopo aver scoperto nella sequenza iniziale la forza di Mei, e il suo desiderio di vendetta per portare in salvo la propria amata sorella, con uno stacco ben riuscito scopriamo che i mirabolanti scontri violenti che abbiamo visto non sono accaduti in Cina ma in un semplice ristorante cinese situato a Roma.

Proprio l’amata terra natia del regista, fa da sfondo alle vicende del film, di cui è protagonista soprattutto la sua personale versione di “China Town”, ovvero il multietnico quartiere Esquilino. Benché questo venga mostrato un po’ poco, così come tutte le ambientazioni in esterni, sovrastate da inquadrature in interni troppo presenti, come quelle del locale cinese che dà il titolo al film.

Ed è proprio nella sua parte “italiana” che questo piatto fusion “cino-romano” (così ha definito il film lo stesso Mainetti all’anteprima) vacilla abbastanza.

Come negli aspetti tecnici, che ancora non sembrano riuscire a far giustizia ad ambientazioni poco comuni per il cinema italiano, lasciandoci con una fotografia che, cercando di mostrare un’ambientazione cupa, finisce col far vedere in quasi ogni scena tubi al neon che sembrano semplicemente essere stati lasciati nel bel mezzo dell’inquadratura.

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Ma il problema più grande del film, come anticipato poco prima, è dovuto alla necessità quasi fisiologica del cinema italiano moderno di aggiungere nei suoi film una comicità sempre dozzinale e che finisce di conseguenza per banalizzare l’intero film, sovrastandone la molto più riuscita componente d’azione.

Il tutto concretizzato dall’aggiunta nel cast di una figura come Sabrina Ferilli, seppur utilizzata bene e in una parte che quantomeno le si addice, e soprattutto dal personaggio di Marco Giallini, un po’ troppo sopra le righe e spesso incomprensibile nella parlata romana troppo stretta.

Il tutto confluisce verso un altro problema del film: i personaggi e le dinamiche che intercorrono fra essi. A partire da un aspetto centrale nel film come il motivo del desiderio di vendetta del personaggio di Mei, che dovrebbe radicarsi nello stretto rapporto che questa aveva con sua sorella in Cina, ma che, essendo spiegato in poche scene abbastanza banali, perde di qualsivoglia impatto emotivo.

Oppure, come la storia d’amore tra Mei e il coprotagonista Marcello, che nasce e si sviluppa decisamente troppo in fretta, tra l’altro grazie a una “passeggiata” in motorino tra le vie più belle di Roma, scena già vista e rivista sugli schermi cinematografici.

Dunque, perché dico che “La città probità” è un film straniero ma non troppo”?

Perché Mainetti, come suo solito, cerca di fare davvero qualcosa di diverso nel panorama cinematografico italiano, inserendo peraltro interessanti temi riguardanti la non accettazione, da parte degli italiani più intolleranti, di un’auspicata maggior multietnicità all’interno del nostro Paese.

Lo sforzo è indubbiamente ammirevole, ma il tutto si perde nel momento in cui il regista sembra costringersi a rientrare comunque in dei canoni, così il bel film d’azione si perde in una commedia banale e in un romanticismo melenso.

Alla fine del film Marcello dice «Qui tutto è possibile e nulla è importante».

Essendo nella cerchia di quei pochi che in Italia riescono ad avere dei budget discretamente consistenti per i propri film, per Mainetti davvero (quasi) tutto è possibile.

Ciò che gli manca ora è di fare qualcosa di davvero importante, e dal suo debutto cinematografico siamo consapevoli che ne è perfettamente capace.


Perché dico che “La città probità” è un film straniero ma non troppo”?

Perché Mainetti, come suo solito, cerca di fare davvero qualcosa di diverso nel panorama cinematografico italiano.

Lo sforzo è indubbiamente ammirevole, ma il tutto si perde nel momento in cui il regista sembra costringersi a rientrare comunque in dei canoni, così il bel film d’azione si perde in una commedia banale e in un romanticismo melenso.