L'uovo dell'Angelo: Recensione - Venire meno al patto narrativo
L’uovo dell’angelo (天使のたまご, Tenshi no tamago, 1985) è un film che rifiuta di concedersi allo spettatore. Ma non potrebbe essere altrimenti, in virtù del suo tema cardine, cioè la fede: quando a un credente viene chiesto di credere, non ci si aspetta che questo si metta a indagare ciò che deve credere, e se il credente si mette in testa di conoscere Dio, avere la presunzione di poterlo comprendere, viene naturale che Dio svanisca del tutto.
L‘atto di fede è il fondamento della religione e la premessa alla base dell’uovo dell’angelo, che di immagini e fenomenologia bibliche è permeato. Il regista Mamoru Oshii non prende posizioni, se sia meglio vivere nella fede (proteggere l’uovo) o abbandonarsi all’indagine scientifica del mondo (romperlo), e porta invece sullo schermo una serie di lente sequenze allucinate e simboli, che Yoshitaka Amano, l’illustratore e character designer, rappresenta con finissimo tratto e tiepido colore.
In un mondo in cui manca tutto tranne l’acqua, la protagonista si prende cura di un uovo tenendolo stretto al grembo; è una bambina e vive alla giornata, procurandosi quanto trova vagando per una città desolata. Macchine kafkiane si muovono per la città imperturbabili; una di queste trasporta un ragazzo armato di croce, che inizia a seguire la bambina. Schiere di pescatori arpionano senza successo e senza tregua ombre di pesci che nuotano tra le case. Tutto è sospeso.
Cosa, allora, distingue la pellicola da un affastellamento di sequenze? Il montaggio. L’alternanza di scene criptiche a fondali di puro fine contemplativo (Yoshitaka Amano costruisce un impianto visuale squisitamente metafisico e desolato) disorienta lo spettatore; a ricondurlo per mano ci pensa il montaggio del regista che lavora per analogie e leitmotiv, ricamando un eterno ritorno di simboli e immagini, in primis legati all’acqua e all’angelo. Lo scarto tra quello che lo spettatore coglie e il senso di smarrimento, produce un effetto perturbante: chi guarda si sente la pellicola sfuggire sotto gli occhi. In altre parole, Oshii, cioè il regista, gioca a non rispettare la sua parte di patto narrativo.
Gli alberi, gli animali sono calcificati in cattedrali di ossa e ancora spirali; Amano ci insiste parecchio sulla spirale e questo frena ulteriormente l’andamento della pellicola. È stato spesso detto che l’uovo dell’angelo è un film lento, sebbene duri solo un’ora e dieci minuti. Non è del tutto vero: l’uovo dell’angelo è un film sull’attesa. Un’attesa, che, come la spirale, tende all’infinito.
Proprio sull’attesa si costruisce, per altro, l’unico abbozzo di spiegazione che ci viene fornito dalla stessa opera: il ragazzo riporta una sua versione del mito dell’arca, nella quale i sopravvissuti ancora attendono la salvezza, e aspettano da così tanto che hanno perso la memoria del diluvio.
Eppure continua a piovere.
