L'arte della gioia - Recensione: Manuale per trafugare la vita

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Una cosa è certa: questo è l’anno di Goliarda Sapienza.

Dal nuovo film di Mario Martone, Fuori, di cui abbiamo parlato poche settimane fa e che ripercorre un frammento luminoso della vita della scrittrice, ai prestigiosi premi che la serie/film de L’arte della gioia sta meritatamente collezionando – due David di Donatello e quattro Nastri d’Argento per le Grandi Serie.


Ma è destinato a essere, quello che viene, un periodo sempre più florido per Sapienza, che forse come i più grandi artisti era destinata a essere apprezzata solo dopo la sua morte. Quando, l’estate scorsa, uscì al cinema in due parti il film de L’arte della gioia, mi imposi di non guardarlo senza prima aver letto il romanzo da cui è tratto, per avere più chiara la

psicologia dei personaggi. Ma una volta conosciuta Modesta mi ci sono volute settimane prima di decidermi a guardare l’adattamento cinematografico. Perché L’arte della gioia è un romanzo pieno: pieno di personaggi, di vita, di spostamenti, di sentimenti che si accavallano l’uno sull’altro.


È un’opera che si sta riscoprendo da pochissimi anni ma che a breve, già si intuisce, verrà annoverata tra i grandi classici, e come i classici riuscirà a dire qualcosa di diverso a seconda della fase della vita e dell’epoca storica in cui la si legge. Fatto sta che lo scetticismo che mi dissuadeva dal premere play alla serie firmata da Valeria Golino è più o meno lo stesso che mi fa temere per L’Odissea di Nolan. Bisogna subito dire che queste remore si sono sciolte per due motivi principali. Il primo, più prettamente tecnico, è che la serie televisiva, disponibile su Sky, si ferma alla prima delle

quattro parti in cui è suddiviso il libro: il tratto di vita ricoperto dalla serie è, tutto sommato, più ordinato e meno prolifico di personaggi rispetto alle successive vicende, intricatissime e degne davvero di una tragedia greca.


Il secondo motivo è che ognuno dei personaggi ha trovato il corpo adatto da abitare – e i corpi, in questa storia, sono fondamentali – un corpo che veramente riuscisse a contenere tutte le sue contraddizioni, le sue passioni e le sue ombre. Da Valeria Bruni Tedeschi, che ha saputo portare alla luce la solitudine e l’insopportabile ossessione per il bello della principessa Gaia, ad Alma Noce che è riuscita ad andare a tempo col passo malfermo di Cavallina, a Jasmine Trinca che aveva uno dei ruoli più complessi e scivolosi di sempre. E infine lei, Tecla Insolia, che col ruolo di Modesta si è confermata una delle attrici più versatili e talentuose della scena italiana. Cominciamo proprio da Modesta. Un personaggio liquido, che cambia i propri contorni a seconda di dove la si mette, e poi aeriforme, ribelle di fronte alla forma che la schiaccia, ma in fondo profondamente solido, con un nucleo roccioso di fedeltà a se stessa che, a posteriori, emerge già chiaro già dalla sua infanzia.


“Ho sempre rubato la mia parte di gioia, a tutto e a tutti”.

Modesta nasce il primo gennaio del 1900, e se il suo non è un nome parlante, la sua data di nascita invece promette l’incarnazione dello spirito del nuovo secolo. Nasce in Sicilia – la Sicilia rurale, senza mare – da una famiglia povera, e come affermerà più avanti nel libro, “I poveri, io sono stata povera e lo so, i poveri non hanno il tempo per essere buoni”; vive con la madre e la sorella disabile, finché un incidente non le spazza via entrambe, e Modesta, a 9 anni, viene portata in convento. Lì viene presa sotto l’ala di Madre Leonora (Jasmine Trinca), che la trasformerà da bambina selvaggia e irriverente a giovane donna colta e curiosa di tutto, talmente curiosa da non avere nessuna intenzione di farsi suora.


È in convento, infatti, che Modesta inizia a fingere – “le lacrime scorrono sul mio viso tutte le volte che diventa necessario” – e a odiare – “e più odiavo più mi sentivo bene”. Perché Modesta è devota, sì, ma non a Dio, bensì a Madre Leonora: la ammira in quanto saggia precettrice, le vuol bene come a una madre, la venera come una santa, e la ama per il suo corpo, quel corpo mortificato e reso peccatore. Questo rapporto la nutre e la dilania, e l’odio che sgorga dalle sue vene finisce per ricoprire, come sangue, tutti i maestri, tutti i dogmi, tutto il sapere che non libera. “Tu crei solo disordine”, le viene detto; ma in realtà il disordine che Modesta porterà di volta in volta nelle vite di chi incontra ha un ordine ben preciso nella sua testa, un fine e una missione.


Fingere per Modesta significa provare un’emozione finché non la prova più, e allora la ricrea artificialmente per ottenere quello che vuole: Tecla Insolia dona il suo talento attoriale a Modesta, che riesce a schiacciare uno sguardo di verità tra due di finzione, quando è necessario.

La sua fame insaziabile di libertà, fisica e intellettuale, è il fine che giustifica ogni mezzo, e che in ogni occasione sa mascherarsi a dovere, sa attendere il momento giusto per rivelare a tutti che, in fondo, nulla conta se non ciò che risponde a questa esigenza fisiologica e primordiale. Il suo è un regime sovrano: la libertà degli altri finisce dove inizia la sua, e lei sola può concedere la vita oppure ordinare la morte di chi la minaccia, anche se è solo la sua ombra. La sua Libertà non ha dei genitori ignoti: nasce dalla Rivalsa, e porta il cognome del Potere. La gioia, quindi, non è nulla di bambinesco, infantile o spensierato: la gioia è lotta, sangue, follia, calcolo.


Nelle sue varie scelleratezze approfitta del suo aspetto innocente, della sua buona volontà, e forse più di tutti del suo essere donna: nessuno si aspetterebbe mai una tale violenza da una donna. Una donna raramente era colpevole, così come meritevole: il sistema oppressivo e patriarcale giocava tutto a suo vantaggio. Nei momenti in cui la follia prende il sopravvento e gli occhi le si tingono di un colore di serpente, Modesta emerge per quello che è: un personaggio affatto digeribile, che rimane lucido anche nella crudeltà. Per Modesta tutto è necessario: amare, odiare, fingere, compiere dei gesti dionisiaci al momento giusto, dentro una cornice di rigore apollineo.

“Nonostante i miei sforzi di condurre, inseguire, deviare il mio destino intuivo che, malgrado me, il mio avvenire finirà per assomigliare al mio passato, e che ciò che avevo fatto una volta con orrore lo rifarò mille volte, e con gioia”.

Non è un caso che il soprannome di Mody, donatole dalla principessa Gaia, riecheggi tanto maudit.


E non posso non dedicare due righe proprio al personaggio della principessa, interpretato magistralmente da Valeria Bruni Tedeschi: un personaggio femminile dai contorni così riconoscibili e odiosi non si vedeva dalla madrina di Fleabag. Gaia rincorre la bellezza ma poi si stanca di fronte alla sua vista, rifugge la noia e puntualmente si annoia a ogni divertimento.

Il fatto è che la ricchezza non può riportarle i suoi affetti dall’oltretomba, ed è questo che le conferisce quel tanto di umanità necessaria a renderla vera. La principessa però sa farsi rispettare, ogni sua parola è un ordine, e dunque Modesta la studia con attenzione. Quanto Modesta odia, altrettanto ama. “Quante volte mi sono innamorata. Tutte le volte che è stato necessario”. Ama in modo carnale, totale, senza chiedere permesso o scusa. Così nasce la storia e la complicità con Carmine (Guido Caprino), per risposta a istinti primordiali che neanche lei riesce a decifrare, istinti sempre e comunque in contrasto col buon senso.

Più di tutto, ama ciò che sceglie. Quando, infatti, entra nella villa dei Brandiforti, subito si accorge di essere circondata da molti morti, pochi vivi, e persone dimenticate dal mondo. E scopre che la disabilità che era stata costretta a sorbire in sua sorella, ormai morta, non risparmia i ricchi: è riuscita a insinuarsi anche in questa reggia ampia e sfarzosa. Qui, però, sceglie di trattarla in maniera nuova, sconosciuta anche a lei stessa, riesce persino ad amarla – l’amore non è mai puro, va detto: è sempre macchiato e sfregiato dalla sete di potere. Forse perché Modesta capisce che ognuno ha diritto alla propria parte di gioia, e la gioia non può che passare attraverso il corpo, persino quello occultato de “la cosa”.

Nel complesso è una serie davvero ben costruita, aiutata dalla struttura già cinematografica della scrittura di Sapienza, che alterna la narrazione onnisciente a brevi monologhi in prima persona. La fotografia di una delicatezza unica si rispecchia nella colonna sonora sognante di Tóti Guðnason, e ogni dettaglio della scenografia e dei costumi è scelto con estrema cura.


Il consiglio è, ovviamente, quello di immergersi non solo nella serie televisiva ma anche nel romanzo. Si percepisce quanto sia stata oggetto di amore da Sapienza in primis, complice sicuramente la loro somiglianza di carattere, e scopriamo oggi anche di fisico – quando Goliarda Sapienza vende i gioielli rubati che la manderanno in carcere, lo fa utilizzando il documento della sorella del suo ex compagno, Modesta Maselli, approfittando della loro fisionomia simile.

Modesta non è facile da amare, ma si lascerà capire e perdonare molte volte: la sua crudeltà è in fondo quasi sempre sopravvivenza, e la sua voracità di liberazione ha molto da dirci oggi.