Intervista a Emiliano Locatelli

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INTERVISTA A EMILIANO LOCATELLI

regista de IL DIAVOLO È Dragan Cygan

a cura di Andrea Molinari


ANDREA:

Il Diavolo è Dragan Cygan è un film che unisce una forte tensione narrativa a una potente carica simbolica. Come nel tuo corto “Solamente tu”, ritornano tematiche come la redenzione, la violenza, la marginalità. Ma qui la marginalità si colloca in un luogo inconsueto: la montagna. Non più la solita periferia urbana. 

Come sei arrivato a questo progetto e cosa ti ha spinto a raccontare questa storia?


EMILIANO LOCATELLI:

È effettivamente un film particolare, soprattutto per ambientazioni e per stile, ed è anche un po’ fuori moda, se pensiamo al panorama cinematografico italiano attuale.

In questo film ci sono dentro le mie passioni: filosofia, storia, cinema, e anche cinema di genere. Ho cercato di fondere tutto questo nella scrittura cinematografica.


Quindi, da una parte c’è un’analisi della società contemporanea, ma con un taglio materialistico-dialettico, in senso marxiano — non in chiave ideologica, ma proprio filosofica.

Quello che ho fatto è stato raffigurare le diverse classi sociali, come già avevo tentato di fare nel corto. Raccontare la società attraverso la stratificazione delle sue classi.


Poi, naturalmente, ci ho messo molto anche delle mie altre passioni, soprattutto per il cinema di genere. La mia ambizione è sempre stata quella di fare un’opera capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Una sorta di ibrido tra cinema d’autore e film di genere.


Va anche detto che la sceneggiatura inizialmente era diversa. Era nata una decina di anni fa, e per dieci anni ho provato a proporla alle case di produzione, senza successo. Poi l’ho riadattata. Quando è entrato il cast, ho modulato i personaggi sulle loro caratteristiche.

Originariamente, la questione dell’immigrazione era più centrale: Dragan doveva essere effettivamente originario dell’Europa dell’Est. Poi, con l’ingresso di Enzo Salvi, che veniva già dal corto, l’ho adattato e ho fatto diventare Dragan un nome di battaglia


ANDREA:

Visto che vieni dal mondo del suono — un percorso atipico per un regista, perché di solito si arriva alla regia passando dal montaggio o dalla sceneggiatura — quanto è importante per te il suono nella costruzione del film?



EMILIANO:

Il suono per me è fondamentale, ma spesso viene sottovalutato.

Io vengo dal suono per caso, perché ho studiato Lettere e Filosofia, poi ho frequentato un’accademia di cinema a Cinecittà. In realtà, volevo già fare regia e sceneggiatura, lì ho incontrato Fabio Ancillai, fonico e docente— a lui è dedicato il film, perché è scomparso un anno dopo la fine delle riprese.

È stato lui a trasmettermi la passione per il sonoro cinematografico, che prima conoscevo poco. E da lì è nata anche la mia carriera come fonico, che porto avanti ancora oggi.


Con Il Diavolo è Dragan Cigan ho fatto un passo in più, una vera scoperta: il mix finale, curato da Stefano Di Fiore — uno dei migliori fonici italiani, anche lui legato a Fabio Ancillai — mi ha aperto un nuovo livello.

Il mix è l’ultima fase, quando il film è già montato e colorato. Ma proprio in quel momento ti rendi conto che puoi cambiare moltissimo: non solo la forma, ma anche il significato di una scena. È un processo semantico, oltre che tecnico.


Nel corto già avevo intuito questo potenziale, ma lì si lavora in stereo, pensato per i festival. Invece col film siamo passati al 5.1, il formato pensato per la sala cinematografica, e lì davvero ti si apre un mondo.

Con il 5.1 puoi cambiare la percezione di una scena già montata, puoi dare rilievo alle musiche, scegliere di farle emergere o no.


Le musiche sono di Emanuele Braga, mentre il brano originale del film è di Danilo Cristofaro, entrambi hanno fatto un lavoro eccezionale. Con il mix puoi decidere se farle diventare protagoniste, o lasciarle in secondo piano. E questo cambia tutto.


Io lavoro in presa diretta, quindi so quanto sia importante registrare bene i dialoghi — e infatti sono contrario al doppiaggio. Ma il mix è un’altra cosa. Il fonico di presa diretta deve essere bravo, ma il fonico di mix è un genio. È lui che decide il senso ultimo del film, a livello percettivo.


Con Stefano Di Fiore si è creata una vera alchimia. Spesso ci anticipavamo a vicenda: io guardavo una scena e pensavo “qui bisognerebbe alzare la musica”, e lui lo stava già facendo. Questa sintonia è stata fondamentale.

Se non ci fosse stata, il film avrebbe sofferto. Il mix può valorizzare o penalizzare un film, e in questo caso ci ha davvero aiutati.


ANDREA:

riflessione illuminante.


EMILIANO LOCATELLI:

Guarda, sto anche pensando di fare un documentario su Fausto Ancillai, il padre di Fabio. È ancora vivo, ed è stato fonico di mix per Sergio Leone, Pasolini, Fellini e Antonioni. Ha mixato anche La battaglia di Algeri di Pontecorvo.

Persino Morricone, che era un genio assoluto, deve molto a Fausto Ancillai. Il fonico di mix decide e rivoluziona, Sul serio.



ANDREA:

Parliamo ora del cast. In Solamente tu avevi già avuto l’intuizione di portare Enzo Salvi in un ruolo inedito, lontano dal comico a cui siamo abituati. E anche ne Il Diavolo è Dragan Cigan questa scommessa funziona benissimo: un ruolo drammatico che, a mio avviso, gli calza perfettamente.

Inoltre troviamo anche Sebastiano Somma, Ivan Boragine, Emi Bergamo, Adolfo Margiotta e Gennaro Lillio. Ti volevo chiedere com’è stato, essendo il tuo primo lungometraggio, lavorare con attori che hanno personalità forti, talvolta “ingombranti”. Come ti sei relazionato con loro sul set?


EMILIANO LOCATELLI:

Con Enzo è stato più facile: ci conoscevamo già da tempo, anche grazie al mio lavoro come fonico di presa diretta. C’era già un’amicizia, e anche una certa chimica, nata durante Solamente tu.

Una cosa che ho imparato è che gli attori bravi si affidano al regista. Può sembrare strano, ma è così. Ho visto questa dinamica anche quando lavoravo come fonico su altri set: quando l’attore percepisce che il regista ha polso, si fida. E quando c’è fiducia, il lavoro diventa naturale.


Con Sebastiano Somma non era affatto scontato, non ci conoscevamo. E lui ha una personalità forte: è anche regista teatrale, ha esperienza e carisma. Però ricordo benissimo che al primo giorno di riprese, quando abbiamo girato la scena più difficile, ho preso in mano la situazione in un momento critico sul set. E lì, da uno sguardo, ho capito che si era instaurata una fiducia. Da quel momento in poi è stato tutto più fluido.

Se dovessimo lavorare ancora insieme, sarebbe tutto molto naturale. Quella barriera iniziale è caduta.


Lo stesso vale per Ivan Boragine, anche lui presente già nel corto. Ho sentito molta fiducia da parte sua, e questo non era scontato, soprattutto per un’opera prima. Alcuni del cast non li conoscevo affatto. Ma la fiducia che ho ricevuto, pur essendo un regista emergente, mi ha aiutato tantissimo.


ANDREA:

Parliamo della struttura del film. Parli di materialismo dialettico, e la tripartizione del film sembra ispirarsi alla dialettica hegeliana: tesi, antitesi, sintesi.

Coesistono due dialettiche in parallelo: da un lato criminalità e legalità, dall’altro la storica dialettica servo/padrone.

Eppure in entrambi i casi le polarità sembrano ribaltarsi e contaminarsi: il criminale cerca redenzione, il poliziotto usa metodi criminali, l’operaio si ribella ma assume la stessa violenza del padrone.

Possiamo dire che il film si chiude non in una sintesi, ma in una frattura? In una negazione della sintesi, in una inconciliabilità? Come se ci fosse il fallimento di ogni possibile forma di risanamento del conflitto?


EMILIANO LOCATELLI:

Sì, esattamente. È una lettura perfetta.

Io ho voluto raccontare le classi sociali e il loro rapporto, e ho tentato di mostrare proprio ciò che hai detto: non c’è una vera sintesi.

Quella che si produce è una anti-sintesi, una frattura, una negazione.


E c’è anche un altro livello, forse non del tutto consapevole in fase di scrittura, che emerge: al di là della struttura e della dialettica, si può leggere tutto come un’unica grande coscienza.

Ogni personaggio, con i suoi difetti e le sue briciole di umanità, può essere visto come un frammento di una coscienza collettiva.


Mi chiedono spesso: perché il titolo parla del “diavolo” al singolare, se il film è corale? Forse proprio perché i personaggi sono tante facce dello stesso diavolo interiore, che è dentro una coscienza lacerata.


ANDREA:

Infatti, non si parla mai di un diavolo metafisico. Forse è il sistema stesso a essere “diabolico”, e l’unica via d’uscita è quella intrapresa dal personaggio interpretato da Enzo Salvi.

Il proletario, invece, resta succube, alienato.


Non a caso nel film si gioca spesso a scacchi e i personaggi si alternano nell’uso dei bianchi e dei neri. È solo una suggestione o c’è un messaggio preciso? Anche lì sembra emergere il tuo discorso sulla contaminazione tra bene e male, sulla loro intercambiabilità.


EMILIANO LOCATELLI:

No, hai visto giusto. Ti dico una cosa in più: nella prima versione del film, le scene con gli scacchi erano persino più numerose.

Ma la distribuzione mi ha chiesto alcuni tagli, e ne abbiamo tolte alcune.

Gli scacchi, anche visivamente, parlano di questo: il bianco e il nero, il bene e il male che si alternano e si confondono.

Non c’è mai nulla di totalmente positivo o negativo nei miei personaggi. E anche queste categorie morali, oggi, sono sempre più sfumate e confuse.


ANDREA:

Il film si apre con una frase di Marx, ma ci sono anche numerosi riferimenti a Pasolini, Dostoevskij, e persino Kant.

Che ruolo hanno per te queste citazioni? E, rispetto alla frase finale di Marx (“l’uomo è la più grande ricchezza per l’altro uomo”), ho percepito un doppio senso: da un lato la dimensione sociale del riconoscimento reciproco, dall’altro lo sfruttamento dell’uomo come risorsa. Qual era il tuo intento?


EMILIANO LOCATELLI:

La frase di Marx ha doppio significato: in un’accezione positiva e romantica, l’uomo è una ricchezza per l’altro perché è nella relazione interpersonale che troviamo senso. Ma nella logica capitalistica l’uomo, insieme alla natura, è una delle due fonti principali di profitto.

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Il capitalismo sfrutta entrambe. Quindi sì, la frase è volutamente ambigua, provocatoria.


Quanto alle citazioni: sono tutte fortemente volute. Pasolini, ad esempio, lo cito non solo per la sua attenzione alle classi subalterne — basti pensare a Ragazzi di vita — ma anche per motivi stilistici.

Il mio film è molto statico, con inquadrature fisse. In parte per necessità, ma anche per scelta: Pasolini usava l’inquadratura in modo quasi pittorico.

Bertolucci, che fu suo assistente in Accattone, raccontava che nei suoi film non si muoveva la macchina da presa, ma si muovevano i personaggi. E questo mi ha molto ispirato.


Dostoevskij, invece, è legato al titolo del film. La citazione dall’Idiota, che viene affidata a Somma, riporta il discorso sul “diavolo” a un livello più esistenziale, legato alla coscienza.

Perché il diavolo, alla fine, non è mai chiaramente identificabile. È dentro. Ecco perché cito anche Kant, quella frase meravigliosa: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.

Perché è lì che si gioca tutto: nella coscienza individuale, che è anche una coscienza sociale.


ANDREA:

Nel film c’è un uso molto interessante del paesaggio. Volevo chiederti se anche la geografia – in particolare la montagnarappresenta in qualche modo la psicologia del personaggio di Enzo Salvi?

La montagna può essere simbolo di ascesi, di redenzione, ma anche di isolamento e di una natura senza pietà.


E in secondo luogo: il film denuncia chiaramente la crisi delle istituzioni, ma anche una crisi di coscienza.

Lo Stato è assente, la religione viene ridotta a un guscio vuoto. Ma anche tra le classi subalterne non c’è unità: i personaggi sembrano alienati, chiusi, incapaci di dialogare davvero tra loro.

Quindi ti chiedo: stai raccontando una crisi sociale o una crisi morale? O entrambe?


EMILIANO LOCATELLI:

Domanda bellissima. Parto dalla montagna.

Nella sceneggiatura originale non doveva esserci il Trentino. Ma io ed Enzo avevamo già girato Solamente tu, premiato al Cortinametraggio, riscuotendo un discreto successo- tanto che ne parlarono perfino in Trentino, dove Enzo stava girando la serie Din Don. Così abbiamo ricevuto un piccolo fondo per girare alcune scene lì, e ho deciso di ambientare, proprio in quei luoghi, tutta la parte relativa a Dragan.


La montagna, per me, rappresenta la possibilità di una redenzione, un luogo in cui ritirarsi a riflettere, dove il personaggio si confronta con se stesso. Ma è anche un ambiente duro, che non perdona. In questo senso, sì, è uno specchio del suo stato interiore.


Volevo differenziare i suoi spazi da quelli urbani e industriali degli altri personaggi, per accentuarne la solitudine. Dragan è un solitario per scelta. E qui mi sono ispirato molto ai personaggi di Clint Eastwood, quelli silenziosi, schivi, ma capaci di agire quando è il momento.

Infatti Dragan, che sembra fuori dal mondo, è poi proprio quello che innesca il cambiamento. Quando torna, è lui che fa scattare la scintilla.


Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda:

No, il mio non è un film moralistico. Non credo in nessuna forma di morale assoluta, né religiosa né laica.

Quello che ho voluto raccontare è che sono le forze produttive a muovere la storia. È il capitale che innesca gli eventi: quando il padrone decide di delocalizzare, tutto si rompe.

Qui torniamo a Marx: è la struttura a determinare la sovrastruttura. La religione, la morale, sono sovrastruttura.


Anche quando vediamo la religione nel film, non è un attacco diretto, ma è evidente che si tratta di un contenuto svuotato: il poliziotto è religioso, ma è anche quello che si comporta peggio.

È come dire: la sovrastruttura non basta. Non salva nessuno. La coscienza, la morale, non fermano gli eventi, che vanno avanti lo stesso, spinti da forze materiali.


Quanto allo istituzioni: non sono anarchico in senso stretto. In alcuni casi servirebbe più Stato, a tutela delle classi inferiori.

Ma lo Stato capitalista, quello asservito al potere economico e oligarchico, non può non essere criticato. È questo il vero bersaglio.


ANDREA:

E in effetti, tutto questo ha avuto un riflesso anche nella produzione: so che è stato difficile trovare una distribuzione. Alla fine hai deciso di autoprodurti, e anche questo è un gesto politico, coerente con il contenuto del film.

Hai curato tutto: regia, suono, sceneggiatura, produzione. Che consiglio daresti a un giovane regista che volesse tentare un percorso simile? Cosa servirebbe davvero per portare avanti un progetto indipendente?


EMILIANO LOCATELLI:

Se non mi fossi auto-prodotto, Il Diavolo è Dragan Cigan non sarebbe mai uscito.

Il momento del cinema italiano è difficile, su questo non ci sono dubbi.

Il consiglio che mi sento di dare è semplice: tentare comunque, sempre.

Oggi i costi di produzione si sono abbassati moltissimo. Anche con una videocamera o uno smartphone si può iniziare.

Magari con un corto, oppure – come ho fatto io – con un lungo auto-prodotto.


Nella prima fase ero da solo, poi è entrata una piccola produzione, la Roble Factory, ma tutto è partito dalla mia volontà di fare.

Non bisogna aspettare all’infinito i bandi, il tax credit, che spesso vanno a chi ha già le spalle coperte. Se arriva, bene. Ma se non arriva, pace.


Serve tenacia, più che talento.

Ho avuto la fortuna di incontrare Danny Boyle, facendo l’audio a una sua intervista per 28 anni dopo.

Mi ha colpito quando ha detto che il talento è importante, sì, ma senza insistenza, senza resistenza, si resta fermi. E io la penso come lui.


E poi, una cosa è fondamentale: la scrittura viene prima di tutto.

Per me il cinema è prima di tutto scrittura. Se il film è scritto bene, anche con una regia minimale, anche con una fotografia sporca, può essere un capolavoro.

Pensa ad Amore tossico di Caligari: certe inquadrature sono anche mosse male, ma è un grande film, perché è scritto benissimo.

Invece oggi si tende a confondere il regista con il direttore della fotografia: tutto bello, patinato, ma dentro… il vuoto.


ANDREA:

Con i budget che hanno oggi certe produzioni, una bella fotografia ormai è la base. Ma spesso manca tutto il resto.

È come una confezione bellissima, con dentro il niente.


EMILIANO LOCATELLI:

Esatto. Scarti lucidati. Sembra tutto perfetto, ma sotto c’è l’inconsistenza.


ANDREA:

A questo punto ti faccio la domanda finale di rito: quanto è costato Il Diavolo è Dragan Cigan?

Così, per confrontarlo con certi “mostri” da milioni di euro…


EMILIANO LOCATELLI:

Circa 130.000 euro.

Che sono davvero pochi. Un film “a basso budget”, in Italia, parte da almeno 300-350mila euro. Noi abbiamo fatto il film con molto meno.

Abbiamo partecipato a bandi per opere prime, ma non abbiamo ricevuto nulla.


Una sceneggiatura difficile, tematiche non facili, un cast non mainstream. Insomma, è stata una sfida ardua fin dall’inizio.


ANDREA:

Oggi il cinema viene visto da molti come semplice intrattenimento, come una fuga dai problemi della realtà.

Il pubblico non è più abituato a concentrarsi, a stare dentro una narrazione densa. E invece il tuo film richiede partecipazione, mette a disagio.

Ma paradossalmente è proprio nei periodi bui che spesso il cinema rinasce, no?



EMILIANO LOCATELLI:

Esatto.

Guarda la storia del cinema italiano. Dopo l’epoca dei telefoni bianchi, arriva Ossessione di Visconti e si squarcia tutto.

Il cinema frivolo viene spazzato via, e nasce il neorealismo.

Oggi siamo in un periodo molto simile: il cinema è spesso disconnesso dalla realtà. Racconta sempre le stesse storie, di classi medio-alte, problemi borghesi, poco aderenti al vero.

Eppure là fuori la realtà è molto diversa. E il cinema dovrebbe tornare a raccontarla.

Io credo che il cambiamento arriverà. E invito i giovani a tornare a narrare la realtà.


ANDREA: 

È stato un piacere averti qui e grazie per questo dialogo così stimolante. 

Il tuo è un cinema che nasce da una vera urgenza. Ti auguro tutto il meglio per questo film e per i prossimi.