In the Mood for Love: la storia di un sentimento tra desiderio e assenza

post-thumbpost-thumb


«Fu un momento imbarazzante, lei se ne stava timida, a testa bassa, per dargli l’occasione di avvicinarsi, ma lui non poteva, non ne aveva il coraggio, allora lei si voltò e andò via».


Wong Kar-wai riassume la complessità del suo In the Mood for Love con una sola frase introduttiva, quando a me risulta difficile parlarne in un intero articolo.


Venticinque anni fa iniziava un nuovo secolo, il tanto atteso e temuto 2000, al cui scattare le macchine non fecero alcuna rivoluzione ai danni degli esseri umani, come tutti credevano.


Così è stato possibile far uscire, pochi mesi dopo, un film come In the Mood for Love. A fare la rivoluzione (nel mondo del cinema) è stato Wong Kar-wai, che ci ha donato un film che rimarrà per sempre tra i più influenti del ventunesimo secolo.


Ma di cosa parla il film? Ovviamente d’amore... si potrebbe pensare.


Celine - in Prima dell’alba di Richard Linklater, un altro dei più bei film d’amore della storia, parla di un particolare sentimento: «questo piccolo spazio nel mezzo. Se c'è una qualsiasi magia in questo mondo, dev'essere nel tentativo di capire qualcuno condividendo qualcosa».


In the Mood for Love parla di questo, di questo strano sentimento lato - che si posiziona esattamente "nel mezzo” fra due vite, due esperienze, e soprattutto due solitudini.


I protagonisti del film, la signora Chang (un’incredibile Maggie Cheung), e il signor Chow (un fantastico Tony Leung), si riescono a capire fin dal loro primo incontro, proprio perché condividono la stessa tragica esperienza.


Nel Simposio Platone fa raccontare ad Aristofane il “mito dell’androgino”, secondo cui gli esseri umani un tempo erano soggetti composti sia da caratteristiche maschili che femminili, finché Zeus decise di dividerli a causa della loro insolenza. In questo modo ogni essere umano è stato destinato alla costante ricerca della sua parte mancante.


«Dunque al desiderio e alla ricerca dell'intero si dà nome amore». 

(Platone, Simposio)


Ecco cosa accade ai due protagonisti, che trovano la propria complementarità nel proprio dolore, dato che entrambi i loro partner hanno intrapreso una relazione extraconiugale.  


Entrambi sono intrappolati nella ricerca, che prima rappresenta il loro desiderio di capire come l’amore tra i loro compagni sia nato, e poi diventa qualcos’altro: il desiderio di colmare quel profondo vuoto che si è formato nei loro animi.


Inizia così un gioco di doppi e inganni, verso lo spettatore e verso loro stessi, in una farsa dai limiti poco chiari, dove il confine tra finzione e realtà si fa sempre più labile e le parole d’amore diventano sempre più vere e sentite.


Le ripetizioni continue della vita, fra i numerosi viaggi dei due al noodle shop più vicino a casa, o le uscite al ristorante in cui parlano dei loro matrimoni falliti (il tutto sempre sottolineato dallo stesso tema musicale), fanno percepire la stasi di un rapporto a cui sembra impedito d’avanzare.


Ma in realtà tutto pian piano cambia sempre di più, come i variopinti colori dei tipici qipao indossati da Maggie Cheung, che scandiscono l’inesorabile passare dei giorni.


E a un certo punto ecco che arriva il fulmine a ciel sereno, e il cambiamento diventa innegabile, seppure i due cerchino in tutti i modi di negare.


«Volevo sentire la tua voce».


post-thumbpost-thumb

Con queste parole colme di sincerità il Signor Chow fa cadere il sipario, lo spettacolo finisce una volta per tutte, ora ha inizio la vita vera, che i due devono avere il coraggio di affrontare.


Ma la paura del giudizio altrui è troppo forte, loro «non sono come gli altri», questa semplice frase erge un muro invalicabile di moralità, che rende il loro un rapporto caratterizzato dal non-contatto.


Le loro due mani, ornate da due fedi spaiate, non possono creare alcun legame in quel mondo esterno così pieno di possibili giudizi.


Si consuma un rapporto in continua sottrazione, che vive nei luoghi più angusti: tra la coltre di un fitto fumo o lo spazio fra le gocce d’acqua di un temporale.


Lo spettatore diventa una figura esterna ed estranea, per questo gli è concesso soltanto sbirciare, senza poter mai vedere nitidamente.


Nulla è affermato ma tutto è suggerito. 


Le figure dei due protagonisti vengono ingabbiate tra sbarre di ferro e stretti corridoi, oppure vengono riflessi su specchi opachi o nascosti tra le pieghe di veli traslucidi.


Improvvisamente, un altro cambiamento.


Il luogo di incontro non è più un ristorante, ma una camera d’albergo, la signora Chang indossa un cappotto di un rosso vivido come le spesse tende che avvolgono l’intero luogo, e che ci ricordano il compianto David Lynch.


I significati sono latenti, ma comprensibili.


La camera 2046: il loro “luogo di mezzo”.


Quelle due mani dalle fedi spaiate finalmente si accoppiano, in una dolce stretta di mano.


Ma la realtà continua a esistere, e bisogna affrontarla. Nella loro complementarità, i due trovano il loro problema più grande: quando uno dei due riesce ad agire, l’altro viene colto dalla paura.


Quando il signor Chow ha il coraggio di chiedere alla signora Chang di scappare insieme, lei non ha la forza di accettare. Quando lei è decisa ad andare da lui, questo è ormai già partito.


In the Mood for Love non è la storia di un rapporto amoroso, ma di tutto ciò che si trova nel mezzo: tra desiderio e assenza.


Ed è proprio l’assenza che colma il finale del film, nelle immagini spoglie del luogo in Cambogia a cui il signor Chow ha deciso di affidare un sentimento così passeggero eppure così eterno, finalmente protetto dall’assenza della realtà esterna.


Così come ho iniziato con la citazione introduttiva del film, voglio chiudere con quella che lo conclude:


«Quando ripensa a quegli anni lontani è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato. Il passato è qualcosa che può vedere ma non può toccare, e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto».