Il Cinema del Sadismo: Audition e Il Filo Nascosto
Audition: la vendetta tra casualità e necessità
Asami Yamazaki (protagonista di Audition) diceva che del dolore della carne ti puoi fidare, e lo faceva stringendo al collo di Aoyama un filo di metallo che favoriva la trafittura della gamba destra tramite una siringa contenente una sostanza paralizzante. Una psicopatica non osserva il mondo con gli occhi rossi della perversione e del sadismo; lo plasma con la sfacciataggine della violenza esplicita.
Sotto la facciata patinata di una sottomissione remissiva, Asami mette le mani su una lama affilatissima, scatenando una vendetta verso qualcuno colpevole non di averla lesa, ma fraintesa.
«Ti piacciono le donne con un passato?»
Invero, man mano che la cinepresa gira, si scopre che Asami un passato traumatico e violento ce l’ha, che il suo comportamento è il risultato di un abuso psicologico e fisico che baratta senza chiedere la bellezza del mattino (derivazione del suo stesso nome) con un tramonto irreversibile.
Aoyama in tal senso diventa il suo obiettivo, non lo costituisce a priori, è solo il mezzo casuale di una vendetta necessaria atta ad espletare un martirio non necessario.
Il giogo al quale Asami si lega è, per definizione, limitante e corrosivo: in lei il dispiegamento di una Volontà di potenza nietzschiana è inverso; l'inevtibaile replicazione dello schema di sofferenza diviene esemplare per tutte le restanti sfere dell’autocoscienza).
Così il profondo slancio nietzschiano all’affermazione e al superamento, nel caso del carattere di Miike, si trasfigura piuttosto in un tentativo certosino di deprimere la realtà per avere la sensazione, caduca e temporanea, di esserne all’altezza, senza mai permettere al ciclo di partecipare di una transizione, ma anzi sancendo un ritorno, sempre e nuovamente, all’acme inamovibile del trauma irrisolto.
«Words create lies. Pain can be trusted»
In questo senso, l'idea sartriana che l'individuo è condannato alla libertà è applicata ad Asami in modo inquietante; essendo costretta a confrontarsi con la propria esistenza in un mondo a cui lei reclama mancanza di patrocinio quindi giustizia, l’unica risposta è la costrizione e l’abuso riflessivo.
E se la risposta si prefigura come conseguenza che è anche causa di sé stessa, non solo smette di avere un effettivo margine di autonomia, ma suggerisce anche che la devianza abbia un’origine ricorsiva e per lo più celata, manifesta solo nei rari casi di un sadismo così urgente da non curarsi degli spalti.
La pellicola in tal senso gioca con l'idea di "normalità" e "devianza", costringendo lo spettatore a rifletterne le radici.
E le concause che quella violenza la determinano si dispiegano come l'alveo ripido di un fiume alla cui foce si mette a nudo una potenza conturbante, che piega la logica, inutile forse se non a ricordare che, in una qualche forma, endovena, c'è qualcosa che sgorga egoisticamente solo secondo sue regole.
Misen-en-scene e fotografia indugiano su elementi di effimera estetica lasciando volutamente nell’abside il marasma cupo della disperazione, fino a quando l’exploit non diviene necessario, rivelando una natura scompostamente duale.
Dunque è forse dal pudore codardo e dalla crudeltà latente che la pellicola sottesamente mette in guardia? L'essenza di un thriller d’essay non compiacente o incalzante, costruito non per dilettare chi la guarda ma per infastidirlo è tutta qui. Un'opera che si lascia guardare senza mai ricambiare l’occhiata, in ginocchio davanti allo spettatore per assaggiare l'ultimo boccone di sangue e parole edulcorate e riscoprirle, nella diversità di gusto, entrambi letali.
Phantom Thread: l'amore come gioco al massacro
E se a Tokyo la vendetta si inietta endovena, nella Londra di Anderson il sadismo è un simulacro d’amore atto a bilanciare gli squilibri d’origine.
«Una casa che non cambia mai è una casa morta.»
Cosa ne fa della realtà un perfezionista al contempo autoritario? La scopre o la modella?
Elevare l'autosufficienza al rango di religione senza concedersi mai il lusso dell’imperfezione ("elevare l'autosufficienza al ragngo di religione senza eccezioni" o anche "senza deroghe"); questo fa Reynolds, artista intrappolato nell’autocompiacimento, ricurvo verso la propria ossessione.
In Reynolds la relazione è strumento di affermazione. Se concede piacere ad altri è solo come effetto collaterale delle proprie chirurgiche operazioni di successo e sempre egli riveste il proiprio agire di una patina diabolica di remissività. In lui anche la relazionalità, quando non un mero strumento di affermazione, è un esercizio di potere manipolativo, patinato dall’eleganza diabolica di una remissione calibrata.
Se al mondo c’è chi compie e chi guarda al compimento, Reynolds forgia il tutto onnicomprensivo premurandosi della convivenza delle parti, vicendevolmente necessarie, in un trionfo hegeliano che eleva l’arte non a rappresentante di una sola realtà sensibile, ma a mezzo attraverso cui lo Spirito quella realtà la esprime, quindi realizza.
E se un enigma di grazia e determinazione, Alma, musa protagonista e prima vera amante di Reynolds, sfiora quella realtà precostituita, facendovisi poi trascinare senza resistenza, in tale realtà sussistono ora e al contempo il fulcro generante (lui) e il pendolo che annulla armonicamente la stasi (lei), in un gioco delle parti che diventa prima indistinguibile e infine ambivalente.
«Chi viene dunque ferito e chi ferisce?»
L'acme del problema della loro relazione è che l’intensità di questa stessa cresce mentre nei due caratteri irrisolti non cresce autoconsapevolezza; il rapporto si prefigura anzi e piuttosto come un pretesto di elusione che utilizza l’altro per giustificare il ritardo su un lavoro tanto intimo quanto privativo; tra i due non vi è attaccamento spassionato, quanto più un incontro al massacro, paradossale ed estenuante.
Tra loro è come se ciascuno dei due cedesse solo per ricevere e ricevesse con l'aridità propria di un ego fratturato senza albero maestro, di cui rimangono a terra solo cocci taglienti.
La tensione tra i due si sviluppa in modo imprevedibile, portando ineluttabilmente a momenti di vulnerabilità e disperazione. Al timone l’intangibile fatica di scrutare un modo per coesistere; ecco perché i protagonisti non recidono mai il legame fra loro, che pure si manifesta, prima che corrosivo, acerbo.
«Qualunque cosa farai, falla con delicatezza.»
Similmente a quanto accade alla scenografia di Miike, anche in Anderson l’estetica avvolge la sostanza come un’edera diventandone parte integrante. Mezzo e fine per giustificare il sacrificio di una sofferenza pervasiva che diviene funzionale alla generazione del legame, come fosse di fatti l’affettività non conseguenza intrinseca ma scopo da perseguire.
Anderson e Miike: staticità e circolarità sadistica
Quello di Alma, elevata divinamente a musa ispiratrice, è un reiterato sacrificio del cervo sacro; è a ben vedere agli occhi del sacrificante kantianamente sublime, un riflesso divino dei desideri di chi lo concepisce, quindi in quanto tale mai svincolato né esterno a egli stesso,ma continuamente da plasmare.
Il rapporto così costituito esige una continua transizione tra sottomissione e liberazione, fra sacrificio di sé e dominio dell'altro: tale tensione riflette quel processo esistenziale dell’essere-per-la-morte che invece manca spietatamente nella dinamica di Miike, dove ogni mossa segue una traiettoria circolare che ricade impassibilmente nella coincidenza tra coda e origine: al superamento statico proprio della pellicola di Anderson si oppone una circolarità viziosa che scaturisce dalla vendetta e trova compimento in essa stessa.
L’uccisione simbolica dell’amato, in Alma, è, paradossalmente, da una parte, sublimazione del suo stato divino al consistente essere-umano e dall’altra vettore per Reynolds verso la scoperta del terrore della finitezza.
E la rivelazione della vita è dispiegata tutta nel finale amaro in cui il perfezionista autoritario viene imboccato per cena con un veleno fatale dosato per essergli solo strumento; un banchetto inedito dove gli amanti si distruggono per nutrirsi, consapevoli che una una tavola dove non si cambia mai portata, è la tavola di una casa morta.