Honey Don't! - Recensione: Identikit di Ethan Coen
Quando da ragazzino mi fecero vedere il mio primo film dei Fratelli Coen, mi dissero: “Non preoccuparti, se non lo capisci”. Tutti questi anni e ancora sto in quel limbo. È bello.
Joel Coen nel 2021 dirige Macbeth, quel nichilismo che odora del modus operandi di Anton Chigurh, i buchi banausici che lascia in mezzo alle fronti altrui; l’uso della luce ne L’uomo che non c’era. Nel 2023 Ethan Coen dirige Drive-Away Dolls, la cazzonaggine di Chad Feldheimer e il suo masticare grossolano le cicche, oppure “zitto e vaffanculo, Donny”. Due dignitosi modi di vivere il proprio esistenzialismo che si incontrano ai poli opposti dello stesso grottesco, come un’affermazione che nega sé stessa in una risonanza perpetua: andateci voi, a capire qualcosa, quando queste due anime parlano coagulate.
Possiamo dire perciò che l’aver visto all’opera, divise, le entità del cosiddetto “regista a due teste” può se non altro aver dato una mano nel capire come quei suoi film, da Blood Simple a Buster Scruggs, abbiano saputo essere così obliqui nel loro parlarci di cose fondamentali, attraverso idiozie. Ma pur avendoci ora fornito, questa scissione e la proverbiale ragion veduta che porta con sé, l’illusione di aver capito un qualcosa di più sui Fratelli Coen, nondimeno presentano anche il problema di dover cogliere a fondo le anime dei due registi sotto la nuova luce della divisione, ed è chiaro che il metodo di decrittazione non potrà essere il medesimo.
Insomma, ho visto Drive-Away Dolls, che faceva ridere nel modo demenziale delle liberazioni, delle scorregge sofisticate. Poi ho visto Honey Don’t!, e tutta quell’ironia autoannullante mi è crollata addosso: Ethan Coen ha un evidente piano. Ma quale? E poi, chi diavolo è, Ethan Coen?
Per adesso, di lui sappiamo che:
- È un cazzone;
- Gli piacciono le pistole (Joel, di contro, mi sembra un tizio più da morte tattile, fisicamente prossima);
- Per lui, l’auto è uno spazio di estrema privacy e introspezione;
- È del Minnesota;
Posto questo, ora tocca capire quale possa dirsi la ragion d’essere di una creatura come Honey Don’t!: a posteriori del divertentissimo film del 2023 – sempre con Margaret Qualley come protagonista – è possibile infatti trovare un inatteso fil rouge che collega le due opere in diversi aspetti, non ultimo l’amore omosessuale femminile e il suo repertorio di crismi, che in questi film si disvela con la medesima non-chalance che l’amore eterosessuale maschile ha preteso nell’arco di quasi tutto il cinema, da che questo esiste.
Qui la mano evidente è quella di Tricia Cooke, co-autrice di entrambe le pellicole, nello scrivere due storie che solo in superficie sembrano avere poco a che fare, così come le rispettive protagoniste, adiacenti nel fondamentale “dettaglio” di una stessa prospettiva che conduce ad azioni opposte, quella della solitudine brillante che appartiene a chi è cresciuto come socialmente subalterno – donna e omosessuale – nei preservativi e stretti contesti comunitari che popolano in maggioranza gli Stati Uniti, e che dunque sono de facto gli Stati Uniti, una pingue potestà di buonpensiero cruciforme. La grossa mano pelosa sotto la quale ombra né Ethan né Tricia sembrano aver piacere di stare.
Se però la risposta del personaggio di Jamie, in Drive-Away Dolls, cercava asserzioni di esistenza nella dissacrazione (che felicemente trovavamo anche nella trama), qui Honey, eponima del film, segue piuttosto l’approccio sconsolato di una solitudine adiafora, uno pseudo nichilismo (sì, lo stesso che viene combattuto ne Il Grande Lebowski) che porta con sé gli strascichi delle violenze verbali e sociali, dell’esclusione che ne è propria, con cui inevitabilmente è cresciuta, come uno zaino gonfio dello stoico e problematico carattere di chi sa rispondere sempre con sarcasmo.
È nel trauma della gabbia sociale che troviamo così anche M. G. Falcone, incarnata da Aubrey Plaza, che proprio in funzione di questo, però, resta il personaggio meno interessante, embrionalmente sviluppato già forte di suddetta giustificazione – ma, a questo discorso ci arriviamo più in là. Non sarebbe stato tanto più interessante nemmeno il personaggio di Chris Evans, il reverendo Drew Devlin, emulo di tutta una tradizione di fuffaguru cui, anche in questo caso, il cinema americano ci ha ben abituato; non sarebbe stato interessante, ma lo è, per via di un semplice questione (sulla quale, di nuovo, torniamo a breve): l’anticlimaticità della sua parabola.
Tutti e tre i personaggi sono legati, infine, da una trama abbastanza standard di quel genere che potremmo collocare fra il noir desolato e la commedia grottesca che, quando la comicità non riesce a elevarsi oltre il già noto, tende a trascinarsi con una certa claudicanza verso la fine (come avviene, fortunatamente solo talvolta, anche in questo film).
Dunque viene da chiedersi: questo Honey Don’t! è davvero interessante come le sue velleità vorrebbero che fosse?
È qui che torna l’aura indecifrabile di coeniana natura: non lo so. O, per dirla con il giusto mix di goffo e poliziesco, “questo film non me la racconta giusta”. Perché ancora una volta mi trovo davanti a un’opera dei Coen, e ancora una volta mi scopro a lambiccarmi il cervello riguardo la soluzione datomi, che, prendendo in prestito le parole di Popper, in quanto troppo semplice è probabilmente fallace.
Perché di fantasia, qui, ce n’è a iosa. Così come di talento ed esperienza registiche, mescolate in un’idea di cinema che, a differenza del Drive-Away Dolls fratello maggiore di questo film, cerca al contempo la plasticità e la sostanzialità che è propria di una plastica, una forma che è una sorta di contrappunto tra cinema e sua parodia, alternando momenti di visioni naif ad altri di geniale invenzione di spazio (senza spoiler, sento di dover esaltare un magnifico primissimo piano sugli occhi di una abuela, che più hitchcockiano di così non si può).
Coerentemente con la propria protagonista, così come nel precedente film, in Honey Don’t! si tratta di reagire a un contesto che non piace, un contesto nel quale si è tutt’al più tollerati, smontandolo. E quindi Ethan Coen – mi scuso, sto per usare quella parola – decostruisce. Ma non in senso meta, o altre sofisticazioni da cinefilo del DAMS. Questo film non parla, in tal senso, sopra di sé, non sovrascrive ciò che dice. Semplicemente, si smonta, in senso letterale, tramite l’arma del succitato anticlimax. E allora la prospettiva cambia:
è il solito, immaneggiabile paradosso dell’ironia, che giustifica e rinnega tutto sotto la propria egida, e dunque valida come vanifica, non si assume responsabilità. M. G. Falcone sembra succube del proprio retaggio, delle violenze e dell’alienazione, sia in senso diegetico che extra: un personaggio a metà; ma che sia una necessità di questo film? Il reverendo Drew Devlin è insignificante e ancor più insapore, ma lì vuole la parabola del suo personaggio: è una punizione del karma, o un contesto costruito ad hoc per punirlo?
L’indagine stessa sulla base della quale la storia prende piede, alla fine, non è che il tanto abusato macguffin; non fosse che il film non va altrove, se non in un secco erotismo e in un vacuità peripatetica. Questo di cui si parla, insomma, è un film che non ha nemmeno il proprio alibi. Ed è un poliziesco, dannazione! Perciò, che cosa diavolo dovrebbe essere, questo Honey Don’t!? Perché la direzione artistica che lo costituisce è evidente, ed è chiaro – soprattutto in ragione di un predecessore come Drive-Away Dolls – che ci sia un’intenzione sulla quale il semplice posticcio non riesce a sovrintendere.
Ho già citato due volte Hitchcock e lo rifarò un’ultima, accodandomi alla romantica visione di Francesco Alò sul come Ethan Coen e Tricia Cooke riversino nei loro film lo stesso tipo di patto che potevamo trovare nel cinema di Alfred Hitchcock e Alma Reville, un cinema che, oltre a essere pioniere e magnifico, era capace di dare da pensare al di sopra della stessa trama e delle ambizioni del proprio mistero, esattamente come questo film e il suo predecessore stanno facendo ora, almeno con chi vi parla.
Dunque, Honey Don’t! è un film a metà? E, se sì, è costruito per esserlo? Difficile dirlo, soprattutto in via dei meschini meccanismi di cui opere con questo tipo di (presunta) ambizione godono. Perché non bisogna sottovalutare un film che si colloca precipuamente nel mezzo: è molto, molto più difficile creare qualcosa di mediocre, che non ambire allo smeriglio dell’eccellenza.
Viene da chiedersi se, allora, il cinema dei Coen non si sia sempre fermato altrove che qui, tutti questi anni: una gioconda mediocrità, il sardonico sorriso coi denti gialli del limbo, tutto quel grumo di insignificanza tramite il quale, magicamente, è possibile dire ogni cosa.
Che Ethan Coen, così come Joel, sia allora un mediocre? Anche qui, difficile dirlo. Perché se confermata, questa informazione li renderebbe i migliori registi al mondo.