Fuori - Recensione

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«[…] stanno dentro anche quando stanno fuori. Non ne escono. Così quando siamo insieme mi sento dentro anche io, libera».


Fuori, il nuovo film di Mario Martone, presentato in concorso al Festival di Cannes 2025, si propone come un’opera intensa e stratificata, ispirata liberamente alla vita di Goliarda Sapienza.

Sin dai primi minuti della pellicola, Martone non cerca tanto il racconto dei fatti, quanto l’anima profonda dell’autrice. Il modo in cui lo sguardo di Goliarda si posa sulle persone che la circondano, la sua capacità di osservare, comprendere e accogliere, diventano il fulcro del film.

Goliarda, interpretata da Valeria Golino, è una figura forte ma anche fragile attraversata da una luce profonda. Finisce nel carcere di Rebibbia a seguito di un furto, un reato che si rivela decisivo: è attraverso quella caduta che inizia a prendere coscienza del mondo reale, smascherando l’illusorietà dell’esistenza borghese vissuta fino ad allora. Paradossalmente, è proprio fuori che si sente in prigione, perché è lì che smette di essere compresa. Come osserva Mario Martone in un’intervista legata al film, «la prigione diventa una rivelazione umana».

In un ambiente duro ma densamente solidale, stringe un legame profondo e sincero con Roberta (Matilda De Angelis), una giovane detenuta dall’esistenza violenta, senza famiglia e tossicodipendente.


Questo rapporto, centrale nella narrazione, serve a illuminare le zone più intime della protagonista: la sua capacità empatica, la tendenza a vedere l’altro al di là del reato e la possibilità di trovare nella relazione umana una forma di salvezza.

Martone delinea un racconto fatto di silenzi, sguardi, gesti minimi. È come se lo spettatore fosse immerso nell’occhio stesso di Goliarda, dentro i suoi respiri, nel ritmo del suo pensiero.

C’è una donna, una scrittrice in cerca di una vita autentica, che vuole liberarsi dai lustrini dei circoli letterari dove non veniva vista. Una persona che vuole solo dare voce alle prigioniere che ha incontrato.


Un altro snodo tematico centrale è l’amicizia, rappresentata in modo profondamente contrastato. Da una parte, c’è il cenno a quella fredda e formale con l’amica del circolo letterario, emblema di un ambiente borghese percepito da Goliarda come inautentico e giudicante, soprattutto con il mutare della sua visione del mondo.

Dall’altra, spicca il legame duro ma genuino con Roberta, nato in un contesto segnato dalla privazione e dalla violenza, e proprio per questo carico di verità e intensità.

L’amicizia con l’amica offesa, rappresentante di un’élite intellettuale, è nutrita da dinamiche di potere, aspettative sociali e convenienze. È una relazione sterile, fondata su apparenze, parole scelte, incontri forzati. Quasi una maschera, utile a Goliarda in un tempo passato, ma ormai estranea alla sua nuova ricerca di verità.

In netto contrasto, il rapporto con Roberta nasce dal conflitto, dal dolore, ma si sviluppa in uno spazio di vulnerabilità condivisa. È un’amicizia che non si fonda su ideali o affinità culturali, ma sulla possibilità di riconoscersi nell’altro anche attraverso i difetti, i silenzi, le rotture. L’affetto che le lega è corporeo, fisico, diretto, e spesso si esprime più nei gesti che nelle parole.


La differenza generazionale emerge non solo nei dialoghi, ma anche nei corpi, mostrati durante la doccia in tutta la loro diversità e bellezza. È un momento quasi rituale, che suggerisce un desiderio di rigenerazione e sancisce l’intimità profonda del legame fra Roberta, Goliarda e Barbara (Elodie).

Il contrasto tra le nudità giovanili e i corpi maturi viene mostrato come strumento narrativo per mettere a confronto epoche, esperienze, prospettive.

Una battuta significativa in questo senso viene pronunciata in una delle prime scene legate alla detenzione di Goliarda: una donna anziana, vestita di nero, commenta con tono ironico ma amaro la differenza tra le detenute giovani e quelle mature, facendo emergere una consapevolezza dolorosa del tempo che passa.

Fuori non vuole solo mostrare il carcere come luogo di degrado, sebbene si riconoscano episodi di violenza, ma desidera anche restituire una quotidianità fatta di regole, solidarietà, resistenza come si vede nei pranzi organizzati da Susy Wong, un’altra detenuta accusata di spaccio internazionale.

Il carcere diventa un vero e proprio ecosistema a sé stante, raccontato attraverso flashback che conferiscono alla narrazione un ritmo verticale, spezzato tra presente e passato.


È proprio il paradosso che Martone coglie: non è il fuori che chiarisce il dentro, ma l’opposto. Chi è dentro desidera uscire, urla la parola fuori (emblematico il caso di Barbara, trovata in terra con tagli sui polsi, scatenando la rivolta che porta le prigioniere a urlare sempre più forte quella parola), mentre chi è fuori sembra cercare ossessivamente quello che era stato trovato dentro: autenticità, ascolto, verità.

Il film è attraversato da una tensione continua, una corsa verso qualcosa: essere vista. Finalmente, Goliarda, in carcere, viene vista e questo la porta a conoscersi sotto vari punti. Fino a quel momento, si sentiva come se fosse in un angolo di un salotto letterario.

La figura di Goliarda, così come emerge nel film, è complessa e sfuggente. È un’osservatrice. Valeria Golino restituisce con misura e profondità il carattere anticonformista dell’autrice: non una martire né una vittima, ma una donna libera, anche nella caduta. La sua voce, pur filtrata dalla regia di Martone, mantiene intatta l’energia poetica e la libertà che si trovano nelle opere della Sapienza.


Le relazioni, come quella con Roberta, servono a dare corpo e movimento alla solitudine della protagonista. È una scelta necessaria per il linguaggio cinematografico, che ha bisogno di carne, tensione, contrappunti.

Roberta diventa così una sorta di alter ego mancato, una figlia simbolica. Il loro rapporto è fatto di gesti fisici, impulsivi, carichi di affetto, ma mai ridotti a semplice erotismo. C’è qualcosa di più.


Martone rende qui omaggio non solo a una scrittrice precedentemente poco valorizzata, ma a una visione del mondo.

La continuità narrativa è sottolineata anche attraverso altre azioni: all’inizio è Goliarda ad addormentarsi appoggiando la testa al muro del bar per poi andarsene via in pessime condizioni; alla fine, è Roberta a essere trovata sola, seduta su una panchina con gli occhi chiusi, ed è lei, stavolta, a scappare dopo aver vissuto attimi intensissimi come la liti al bar, lo schiaffo preso dalla scrittrice e la consegna della preziosissima valigetta.


Goliarda, infatti, rimane con le carte in mano, come se finalmente avesse trovato, almeno per un momento, uno scopo, un passaggio di testimone e definita simbolicamente «ladra di vite». Si vede nella storia raccontata, il percorso di una donna verso la ridefinizione di alcuni aspetti, valori e significati.

In questo film si entra direttamente all’interno della mente e dello sguardo di Goliarda che osserva il mondo interno ed esterno. Una cosa è sicura: in un certo senso, la personalità e gli scritti di Goliarda Sapienza sono riusciti a entrare dentro al lettore e spettatore lasciando un segno indelebile