Eddington - Recensione: La ballata dell'ascolto perduto

post-thumb

Amici, vicini, patrioti di Sevilla!

Grazie per essere qui - a due metri l’uno dall’altro - sotto questo grande, luminoso, cielo americano. Sono qui per parlarvi di Eddington.

(Il discorso prosegue qui come prologo da comizio, con una cadenza oratoria che esalta l’ordine, ammette il dolore, razionalizza la forza come prudenza e trasforma la contraddizione in un “aggiornamento”.)


Eddington di Ari Aster viene al mondo come un neo-western pandemico, ma funziona come un’autopsia del discorso pubblico. La città è piccola e le questioni paiono locali - coprifuoco, posti di blocco, la corsa a sindaco, la promessa di un data center - ma sono le parole a smettere di essere ponti e diventare barricate. Le persone non parlano tra loro; trasmettono a qualcun altro. Perfino la grammatica del genere - lo scontro finale, l’assemblea cittadina, il comizio - viene ricodificata per la messa in onda. Il risultato è un film sulla responsabilità, sì, e anche su come la responsabilità diventi retorica quando non c’è più spazio per ascoltare.

Letto come pura oratoria, il discorso è persuasivo, perfino rassicurante. Dentro l’inquadratura di Aster, un caso di studio su come la trasmissione rimpiazzi la comunicazione. Chi parla non sta conversando; sta facendo campagna. Espressioni come “misura temporanea”, “episodio isolato” e “spiacevole ma necessario” non sono descrizioni bensì copioni, reiterati finché la ripetizione si indurisce in realtà. La città non risolve i propri conflitti: si racconta fino a mettersi all’angolo e poi dichiara quel cantuccio il centro del paese.

Una città come un feed

La strategia visiva di Eddington rende tangibile questa diagnosi. La macchina da presa recinta lo spazio aperto con cartelli, leggii, podi e schermi. Le stanze ronzano di radio, banner di livestream e sottopancia, rumore ambientale che trasforma ogni scambio privato in una performance pubblica. I western classici incanalano il dissenso verso una resa dei conti in strada; Aster lo instrada in trasmissioni parallele il cui unico confronto è il volume. Quando la violenza arriva, non esplode come un terzo atto, bensì cade come un contenuto.

“È tutto sotto controllo” ha la certezza di un titolo di giornale perché di fatto, lo è: assertivo, condivisibile, impermeabile alla replica. E il film continua a chiedere: com’è il “controllo” dall’altro lato del distintivo? Dall’altro lato dell’obiettivo?

L'uso responsabile del potere - o la sua posa più telegenica?

Sosteniamo che i coprifuoco siano protezione, i posti di blocco prudenza e l’istruzione una forma d’amore. Il film concede questa logica e poi la ribalta con calma: l’amore senza ascolto inacidisce in dottrina; la dottrina senza luce del giorno diventa ciò contro cui la gente ha marciato. Le stesse parole che tranquillizzano una città impaurita - temporaneo, necessario, spiacevole - la anestetizzano. Non è una trappola: è la struttura. Un linguaggio a cui non si può rispondere è indistinguibile dalla forza.

Le telecamere “lusingano il caos”, la coincidenza non fa prova, la verità è un documento vivo. Eddington archivia queste autodifese nella colonna sonora del 2020 e ci invita a osservarne il funzionamento. Gli aggiornamenti sono reali; ma lo è anche l’elusione. La scienza si corregge in pubblico; il potere, spesso, corregge per il pubblico. Lo sceriffo, come dici? Ci prova? Il film accusa apertamente: ci si fa scudo del “provarci” per imporre proprie verità, e il risultato è violenza.


Corpi, voci e l'algebra della sicurezza

La febbre della città—intrisa di paura, lutto e desiderio di certezza—fa sembrare la diceria ossigeno. Qui non fallisce solo l’amministrazione: fallisce la comunità. Davanti alla violenza domestica, persino la nostra stessa madre rifiuta la verità e la sostituisce con un colpevole di comodo. È gaslighting istituzionalizzato: proteggiamo l’ordine simbolico, non le vittime. Così la società chiama ‘prudenza’ quello che è complicità, e trasforma la negazione in protocollo morale.


La contraddizione come compassione

Nell’ecosistema del film, la contraddizione è anche ottimizzazione. I messaggi vengono iterati per smorzare l’indignazione e ripristinare il flusso. È qui che il data center arriva come battuta finale corrosiva: la città non riesce a costruire un luogo comune, ma può costruire un impianto che muove informazioni più velocemente di qualunque riconciliazione umana. La nuova piazza cittadina ronza ai margini dell’inquadratura, climatizzata e protetta da badge: una cattedrale della trasmissione senza panche per la conversazione.


Architettura della trasmissione

Tecnicamente, Eddington allinea ogni scelta—formato, lenti, montaggio, suono, scenografia—alla sua tesi: comprimere il western per mostrare un mondo in cui il messaggio occupa fisicamente lo spazio del dialogo. Il 1.85:1 stringe l’orizzonte, il blocking frontalizza i corpi (podio/cornice invece di campo/controcampo), le ottiche “pulite” riducono l’effetto epico per trasformare stanze e uffici in griglie di segnaletica, plexiglass e display. Il montaggio insiste sulle code dei piani: il tempo dell’ascolto evapora, resta il tempo dell’annuncio. Il suono privilegia altoparlanti, PA, radio, live banner: non accompagna, annuncia una colata continua di direttive che appiattisce le sfumature emotive. La scenografia, infine, sostituisce il paesaggio con l’infrastruttura: corridoi normativi, percorsi obbligati, cartelli che invadono i fondali finché la conversazione non ha più dove stare.

Per questo la cattedrale finale di server non è una semplice location, ma un monumento di senso: la nuova “piazza” è un impianto chiuso, climatizzato e non negoziabile, dedicato alla trasmissione che ha sostituito la conversazione. L’immagine non apre: restringe. Il suono non ascolta: impone. In questo sistema, la forma non illustra la tesi—la compie.


La storia che ripetiamo diventa quella con cui dobbiamo vivere

Eddington mostra come la ripetizione vinca non perché sia vera, ma perché non esiste uno spazio concorrente in cui l’ascolto possa produrre un risultato diverso. Non sono necessari jumpscare per suscitare orrore. In questa città, come nella nostra, “responsabilità” suona come attacco, “cura” suona come controllo e la contraddizione può essere lavata via come “crescita”.

Quindi sì: vota pure l’accountability; vota la cura. Ma Eddington punge qui: votare è facile in un mondo di dichiarazioni e slogan. Ciò che è difficile - quello che il western metteva in scena in una piazza polverosa - è l’atto rischioso della conversazione e del confronto. Eddington sostiene che abbiamo perso il luogo per farla - la piazza - e finché non lo ricostruiremo, la leadership sarà indistinguibile dalla radiodiffusione, la sicurezza dal silenzio, e la verità dall’aggiornamento che performa meglio.