Cuore Selvaggio - Recensione: Amore, Sangue e Benzina

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Ora dolcezza, siedi qui accanto a me prima che il jukebox smetta di cantare e il neon sulla parete cominci a spegnersi come un cuore stanco. 

C’è qualcosa che devo raccontarti, una storia che pulsa sotto la pelle della notte come il rombo di un V8 surriscaldato che corre dritto su un’autostrada nel mezzo del deserto.

Parla di un uomo con una giacca di serpente incollata alla schiena come un peccato originale, e di una ragazza con le pupille piene di fiamme e la bocca come una promessa detta sotto la pioggia.

Non è la solita storiella da innamorati timidi e sogni a buon mercato, no.

Questa storia ha sangue sul cruscotto, rossetto sbavato nello specchietto retrovisore, e un mucchio di sogni randagi che urlano nella notte mentre sfrecciano senza freni verso la fine della strada.

E so bene che alla gente piace pensare che l’amore sia una cosa semplice, con gli angoli arrotondati e i finali impacchettati per bene come caramelle lasciate sul comodino.

Ma questo viaggio?

Questo viaggio non frena per nessuno.

Questo viaggio ti prende l’anima e la mette alla prova curva dopo curva, bacio dopo bacio, come se l’amore fosse una corsa cieca attraverso un campo minato, col cuore in mano e gli occhi chiusi.

«Questa è una giacca di pelle di serpente! E per me è un simbolo della mia individualità e della mia fede nella libertà personale.»


No, tesoro. Quella che ti sto raccontando non è il tipo di storia che ti raccontavano da bambina, quando la luce era bassa e le lenzuola profumavano ancora di casa.

Questa è una favola sbagliata, storta, con le ossa rotte e il cuore che ulula sotto la luna; una storia d’amore nata sull'asfalto bollente e cresciuta in mezzo a cicatrici e sigarette spente sul dorso della mano.

Sailor e Lula sono Romeo e Giulietta se fossero cresciuti ascoltando southern rock a tutto volume, fumando Marlboro e masticando traumi come fossero chewing gum senza più sapore.

Lui è puro atteggiamento da serpente, mosse da predicatore rock’n’roll, con gli stivali consumati e quella voce che sembra sempre sul punto di confessarti qualcosa di troppo.

Lei invece è un incendio che cammina, tutta curve e ferite, dolce come miele un attimo prima di strapparsi la voce in un urlo che non chiede scusa.

Insieme sono elettricità e crepaccio, come due fili scoperti che si toccano in un temporale.

Danzano, quei due, a occhi chiusi, su un campo disseminato di mine, tenendosi per mano col terrore sotto la pelle e la speranza che, forse, stavolta andrà tutto bene.


E ora siediti un po’ più vicino, perché ti voglio parlare di quel ragazzo, Nicolas Cage

Qui non recita, non interpreta, ma si lascia possedere dal suo personaggio come se avesse fatto un patto col diavolo e firmato con sangue e rock'n'roll.

Diventa Sailor Ripley come un profeta posseduto dalla febbre: si muove come un Elvis reincarnato e affamato, ma quando colpisce, lo fa come una belva chiusa in gabbia da troppo tempo.

È selvaggio, certo, ma in quegli occhi c’è qualcosa che trema, qualcosa di vero, qualcosa di buono che non vuole morire.


E poi, quando canta “Love Me” in quel bar che sa di fumo stantio e di lacrime trattenute, con la voce che accarezza e ferisce nello stesso respiro… beh, in quel momento, amore, senti il cuore che si torce come un fazzoletto zuppo d’anima.

E Laura Dern? Signore mio, lei è tutto quello che una donna può essere quando ama troppo e ha paura di smettere.

Come Lula, non recita: brucia.

Passa dalla dolcezza alla furia come il cielo di una tempesta del Sud, e ogni volta che apre bocca senti che sta sanguinando da qualche parte, anche se non vedi dove.

La sua voce vibra come se avesse pianto per ore dietro una porta chiusa, e forse lo ha fatto davvero.

Ma nonostante tutto, sale su quella macchina con Sailor, crede ancora che l’amore possa correre più veloce dei mostri che li inseguono.

E questa, bambina mia, è la definizione stessa di coraggio.


E adesso ascolta bene, bellezza, perché questa storia non è fatta solo di amanti bruciati e strade senza uscita.

Ci sono anche i fantasmi. Ci sono gli altri. I personaggi che non entrano in punta di piedi, no. Loro scassano la porta, ti rovesciano il bicchiere, ti guardano dentro come se sapessero cosa sogni la notte e non ti lasciassero più in pace.

Prendi Marietta, la madre di Lula.

Diane Ladd la interpreta come se avesse un cuore spezzato incollato con rossetto e disperazione, come una bambola da salotto lasciata sotto la pioggia per troppi inverni.

Il trucco le cola, le mani tremano, e gli occhi? Quegli occhi non cercano più amore: cercano controllo, vendetta, salvezza forse, ma col coltello in mano.


Non è una madre, è una tempesta emotiva in carne ed ossa.

Non supplica: strilla.

Non piange: si sbriciola.

E nel modo in cui si aggrappa alla figlia, non per tenerla ma per non affogare, c’è qualcosa di profondamente umano e spaventoso. Come l’abbraccio di qualcuno che non sa più distinguere tra amore e possesso.

E poi — Dio ce ne scampi — c’è Bobby Perù.

Willem Dafoe entra in scena come se l’inferno avesse messo i baffi e un paio di stivali da rodeo.

Cammina come una minaccia e parla come una bestemmia detta sottovoce, tutto denti marci e risate sporche, un’infezione a forma d’uomo.

Non recita il male, no: lo incarna.


È viscido, velenoso, eppure non riesci a distogliere lo sguardo.

È il tipo di uomo che ti fa ridere e subito dopo ti fa sentire sporco solo per aver riso.

Ogni sua apparizione è un pugno nello stomaco con il guanto unto d’olio e peccato.


Fa venire voglia di spegnere la luce e sperare che se ne vada, ma sai che non lo farà. Perché lui non è solo un personaggio: è il lato oscuro della strada, l’incubo che guida accanto a te quando pensi di essere solo.

E vedi, questi non sono semplici cattivi.

Sono le allucinazioni di David Lynch, sputate fuori dal sogno malato di un’America che ha perso l’innocenza e adesso non fa altro che rigirarsi tra lenzuola sudate e memorie radioattive.

Camminano alla luce del giorno, ma portano l’ombra dentro di loro.

E in quel mondo storto, dove tutto è un po’ più grande, un po’ più marcio, un po’ più vero, fanno paura. Una paura dolceamara, perché sai che potresti incontrarli davvero, o forse lo hai già fatto e ti sei solo voltato dall’altra parte.


Questo film non si siede educatamente a fianco a te.

Ti spinge, ti strattona, ti urla in faccia e poi ti sussurra parole d’amore all’orecchio mentre fuori, dietro la finestra, tutto prende fuoco.

C’è sangue. C’è sesso. Ci sono scene che fanno accapponare la pelle. Eppure, in qualche modo, è tutto avvolto nel morbido bagliore di una fiaba.

Lynch intesse questo sogno febbrile di innumerevoli riferimenti al Mago di Oz, li piazza come se stesse lanciando una bottiglia di vetro in mezzo a un incendio.

Ci sono streghe. Ci sono mattoni gialli. 

C’è perfino una fottuta Glinda dei sogni, che arriva giù come un miracolo a tarda notte. Come se chiedesse “E se Dorothy non fosse mai tornata a casa?”

La telecamera non trema. La musica non si ferma. Un minuto stai battendo la testa al thrash metal, il prossimo galleggi mollemente immerso in una ballata d'amore. È una sinfonia selvaggia di caos e tenerezza. Un tornado avvolto in una ballata Southern Gothic.

Wild at Heart è un canto.

Un canto urlato con la gola rotta e le mani sporche.

Un gospel sudicio del Sud, cantato sotto il neon, con la lingua bruciata dalla verità.


Ora tesoro, parliamo dell’aspetto con cui si presenta questa pellicola, that’s a whole sermon on its own, baby!

Frederick Elmes, direttore della fotografia, non si limita a riprendere il Sud, ma lo trasforma in un’allucinazione.

Ogni fotogramma è intriso di neon rosso e di una luce diabolica. I motel brillano come sogni febbrili, le strade secondarie luccicano sotto un sole che non benedice, brucia. È quel genere di luce che fa prudere la pelle e aumentare il battito cardiaco. Le ombre non nascondono demoni, li invitano a entrare.

Elmes rende il Sud seducente e pericoloso, come un serpente a sonagli liscio e lucente. Ti butta dentro sudici motel, sopra moquette incrostate, lungo strade bruciate dal sole. Spara tutto come se fosse parte di qualche mito americano perduto. 

Non è nostalgia. È cruda memoria tossica.

È un’America nata da chi non riesce più a credere al Sogno.

Persino i colori non stanno lì a farti compagnia. Il rosso è fuoco, il blu è silenzio, il giallo ti guarda con occhi feroci.

La luce è quella del deserto, non benedice ma punisce.

È quella che ti fa sudare anche l’anima, che ti fa venir voglia di chiudere le tende anche a mezzogiorno.

E i luoghi dannazione, quei luoghi sembrano vivi.

Benzinai persi nel nulla, strade senza fine, tende mosse da un vento che non rinfresca.

Tutto si muove come se stesse ricordando qualcosa di brutto.

Ogni inquadratura ha un peso.

Un profumo di morte, di qualcosa che poteva essere e invece è rimasto incastrato nei muri.


Il fuoco di Lynch prende vita da sogni, incubi e vecchie canzoni che escono dal jukebox solo quando il bar sta per chiudere. 

Ogni miglio di questo viaggio è più strano del precedente. Tra gangster con denti d'argento, sicari che parlano solo tramite indovinelli, madri dalla faccia dipinta appena uscite dal nono girone dell'inferno. 

È tutto un caos, certo. Ma è un caos progettato.

Il fuoco porta con sé una elevata potenza simbolica. Non solo in questa pellicola, ma per tutta l’articolata e selvaggia carriera del regista. 

In Wild at Heart, il fuoco è trauma in movimento. È il passato di Sailor che lo sta per raggiungere, che gli arde dietro gli occhi come un ricordo troppo potente da poter trattenere. La voce di Lula trema. L'amore potrebbe distruggerla. E anche la morte, attraverso quelle fiamme che lambiscono lo schermo ogni volta che la violenza viene a bussare. 

Ma Lynch — oh, lui ha ballato con il fuoco per molto tempo.

Torniamo ai tempi di Eraserhead, e lo sentiremo nella statica, il sibilo, la tensione nel radiatore. Non letteralmente fuoco, ma vibra dentro le pareti, dentro il petto, facendo sudare nel silenzio.

Blue Velvet è a combustione lenta. Tutto sembra perfetto sulla superficie, ma sotto? C'è una fiamma in attesa di farsi strada attraverso la carta da parati. Violenza, lussuria, follia: si alimentano lontane dalla vista, come fumo che si insinua tra le fessure.

E naturalmente, Twin Peaks e, nello specifico, Fuoco cammina con me. Ora non parliamo nemmeno più di metafore. Quel fuoco è spirituale. È dannatamente biblico. È il dolore che Laura Palmer non può sfuggire, il male che parla negli indovinelli e nei sogni. Una maledizione che la fa passeggiare per l'inferno con gli occhi aperti.

Nel mondo di Lynch, il fuoco non è solo in grado di distruggere, ma anche di rivelare. Brucia la maschera, illumina l'oscurità. A volte ti mostra chi sei veramente, e a volte non lascia altro che cenere e l'eco del tuo nome.

Quindi sì, il fuoco è sempre lì, negli angoli, pronto ad accendersi quando meno te lo aspetti. È dolore. È passione. È profezia.

E in Wild at Heart, è anche un amore troppo contorto, pericoloso, ma che brucia fino in fondo.


Un film che non è per tutti, nemmeno per ogni fan di Lynch

È un film pieno di rumore e passione che bruciano come benzina calda di domenica. E vi dirò la verità: mi è piaciuto. Voglio dire, davvero. 


Ma sarò onesta: a volte sentivo la fiamma sfarfallare un po' troppo lontano. Il caos non sempre atterra in piedi. 

Guardare Wild at Heart è stato come guardare un sogno che cerca di superare un incubo. 

Ora, c’è magia qui. Alcune scene di questo film mi perseguiteranno a lungo. Ma non tutti i pezzi si sono incastrati perfettamente per me. Non è scattata la scintilla. 

Le parti che ho amato, le ho amate davvero. Altri tratti mi hanno fatto sentire come se fossi bloccata in un sogno febbrile da cui non riuscivo a svegliarmi. Intrigante, certo, ma anche sudato, intenso e un po' troppo lungo.


Se vi state per affacciare all’universo di Lynch, questo non è il posto migliore da cui vi consiglierei di iniziare. E anche se siete già rodati, potreste trovare questo film una virata un po' troppo selvaggia fuori strada.

Wild at Heart è una poesia folle, indisciplinata e sanguinolenta. Ha calore, ha ritmo e ha anima, ma non sa sempre quando smettere di ululare e lasciarti respirare.