Bring Her Back – Recensione: L’orrore non consola
Con il loro secondo lungometraggio, i fratelli Danny e Michael Philippou abbandonano l'energia giovanile di Talk to Me per inoltrarsi in territori più cupi e profondi. Se il primo film parlava il linguaggio dei social e dell'adolescenza, Bring Her Back è un horror maturo, viscerale, che non ha paura di sporcarsi le mani con il dolore reale.
A dare il tono ci pensa subito una sequenza d'apertura disturbante: frammenti di un inquietante filmato russo amatoriale che sembra uscito da un circuito di snuff movie. Una mossa radicale, che imposta il registro sinistro di un racconto che gioca con elementi tanto soprannaturali quanto brutalmente umani. È il film della loro maturità artistica. E si sente.
La storia ruota attorno ad Andy (Billy Barratt) e Piper (Sora Wong), fratellastri rimasti soli dopo la morte del padre. Lei è ipovedente, lui troppo giovane per occuparsi di lei da solo. I servizi sociali li affidano temporaneamente a Laura – una straordinaria Sally Hawkins – ex assistente sociale che ha perso tragicamente la propria figlia con disabilità visiva e vive ora isolata con un altro bambino in affido: Oliver (Jonah Wren Phillips), muto e dall'aura inquietante.
Laura è inizialmente solare, premurosa, fin troppo accogliente. Ma qualcosa in lei non torna fin dal primo momento. Tra gesti perturbanti – come rubare una ciocca di capelli dal cadavere del padre durante il funerale – e comportamenti ambigui come organizzare drinking games con i minori durante il lutto, i segnali d'allarme iniziano ad accumularsi inesorabilmente. Nel frattempo, Oliver viene tenuto strategicamente lontano dai due nuovi arrivati, e più Laura tenta di costruire un'apparente armonia domestica, più emerge il suo controllo manipolatorio e ossessivo.
Ed è proprio qui che emergono i limiti più evidenti del film: una struttura narrativa che si affida a dinamiche fin troppo familiari agli appassionati del genere. Il bambino muto e minaccioso, la madre surrogata psicologicamente instabile, la casa isolata che nasconde segreti oscuri: elementi che abbiamo visto decine di volte, spesso senza quella rielaborazione creativa che potrebbe renderli di nuovo efficaci.
La sceneggiatura procede lungo binari prevedibili, e il pubblico più smaliziato riesce ad anticipare gran parte delle rivelazioni e dei colpi di scena. Questo aspetto toglie forza ad alcuni momenti che, dal punto di vista della messa in scena, colpiscono nel segno ma arrivano drammaturgicamente già scarichi della loro potenza narrativa.
Nonostante queste lacune strutturali, la tensione non cala mai, perché il film accumula scena disturbante dopo scena disturbante con un ritmo inesorabile, costruendo un crescendo emotivo e visivo che non concede tregua allo spettatore.
Dal punto di vista puramente visivo, Bring Her Back è un pugno allo stomaco. La regia è più sporca e abrasiva rispetto a Talk to Me, ma anche più audace: inquadrature claustrofobiche, montaggio frenetico che riflette la frammentazione mentale, frame in infrarossi e un costante senso di allucinazione visiva costruiscono una realtà instabile, filtrata attraverso la psiche sempre più compromessa di Andy.
Il film gioca costantemente sulla percezione distorta: gaslighting sistematico, deliri indotti, realtà che si deforma sotto i nostri occhi. Diventa sempre più difficile distinguere cosa sia autentico e cosa no, esattamente come accade ad Andy, che viene progressivamente spinto sull'orlo di una crisi nervosa.
Tra queste scelte estetiche, spicca l'inserimento intelligente di elementi di analog horror, un sottogenere che ha conquistato il panorama dell'orrore digitale nell'ultimo decennio ma che raramente trova spazio nel cinema mainstream. I Philippou integrano frammenti sgranati registrati su VHS, filmati a bassa risoluzione che mostrano rituali occulti, impiccagioni e scene criptiche, creando un cortocircuito temporale che amplifica esponenzialmente il senso di smarrimento.
Non si tratta di semplice nostalgia estetica fine a se stessa: l'analog horror funziona perché la sua imperfezione tecnica – il rumore di fondo, i colori slavati, la definizione scadente, il glitch – evoca un'autenticità perturbante, come se stessimo assistendo a qualcosa di proibito, scoperto per caso in una soffitta. In Bring Her Back, questi inserti diventano finestre sulla psiche compromessa di Laura, frammenti di una memoria collettiva corrotta che si insinua nella realtà domestica quotidiana.
È un espediente narrativo particolarmente intelligente, che dimostra come i registi – pur non provenendo direttamente da quel filone – abbiano saputo attingere dalla cultura horror digitale senza scadere nella citazione autoreferenziale o nel name-dropping estetico.
Il cuore emotivo della storia resta saldamente nel rapporto tra Andy e Piper. Billy Barratt offre una performance straordinaria nel ruolo di Andy: un adolescente tenace e istintivo, che affronta l'escalation dell'orrore con la forza disperata di chi ha un unico, vitale obiettivo – proteggere la sorella a qualunque costo. Sora Wong, nei panni di Piper, è altrettanto convincente: vulnerabile ma mai completamente passiva, troppo giovane per comprendere appieno la situazione, troppo fragile per difendersi autonomamente.
Una menzione particolare merita Jonah Wren Phillips nel ruolo di Oliver: nonostante il personaggio sia vittima di uno dei clichés più abusati del genere (il bambino muto inquietante), il giovane attore riesce comunque a renderlo genuinamente disturbante come tassello fondamentale nel rituale oscuro orchestrato da Laura.
Ma è Sally Hawkins a dominare letteralmente ogni scena in cui appare. La sua Laura è un personaggio tragico camuffato da villain, spaventosa ma mai ridotta a una dimensione sola. Anche nei momenti più inquietanti – quando si trasforma quasi letteralmente in un mostro, in senso tanto visivo quanto simbolico – resta sempre percepibile una fragilità profonda, un dolore autentico che ha marcito dall'interno. Ed è proprio in quella disperazione umana che, paradossalmente, lo spettatore riesce quasi a provare una forma distorta di compassione.
Bring Her Back strizza l'occhio all'elevated horror attraverso diversi elementi: rituali simbolici, iconografie occulte, temi legati al lutto non elaborato e alla maternità che si trasforma in ossessione distruttiva. Ma i Philippou non abbandonano mai completamente il loro stile riconoscibile, abrasivo e fisicamente impattante.
Il film non si fa scrupoli a mostrare immagini estreme, gore esplicito che lascia il segno, momenti di autentico disgusto visivo, e in più di un'occasione riesce a mettere lo spettatore a disagio ben oltre la soglia del sopportabile. La violenza non è mai gratuita, ma è sempre funzionale alla narrazione e all'impatto emotivo che i registi vogliono ottenere.
Certo, il rituale al centro della trama risulta forse troppo barocco per essere davvero potente dal punto di vista drammaturgico, e finisce per svuotare parzialmente il peso emotivo che la prima metà del film aveva costruito con grande efficacia. È come se la spettacolarizzazione dell'orrore prendesse il sopravvento sulla profondità psicologica dei personaggi.
Tuttavia, nonostante questa forzatura nell'atto finale, i Philippou non cedono completamente al fascino del cinema d'autore pretenzioso: Bring Her Back mantiene una coerenza stilistica riconoscibile, seguendo idealmente la strada tracciata da Talk to Me, ma con maggiore ambizione visiva e una più consapevole profondità tematica.
Bring Her Back – Torna da me è un film imperfetto ma potentissimo, che non fa sconti narrativi e non cerca consolazioni morali facili. Anche se alcuni passaggi sembrano più costruiti per provocare che per approfondire, e il trauma familiare rischia occasionalmente di essere utilizzato più come dispositivo scenico che come tema realmente elaborato, il risultato complessivo è un horror che colpisce contemporaneamente allo stomaco e al cuore.
I Philippou confermano di saper seguire una strada autoriale riconoscibile che li distingue nel panorama dell'horror contemporaneo: non cercano l'arte per l'arte, ma puntano dritti alla verità sporca e viscerale che si annida nelle pieghe più oscure del dolore umano.
Bring Her Back è un viaggio nell'abisso emotivo che lascia cicatrici. E per chi è disposto ad affrontarlo senza riserve, regala un'esperienza cinematografica che difficilmente si dimentica.