The Straight Story - La dolce ostinazione del ritorno

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Ho visto un film che mi è colato addosso lento come melassa tiepida: la strada sullo schermo si è arrotolata in un ricciolo di polvere e mi ha riportato all’imboccatura del nostro vialetto, alla cassetta della posta che suona il suo clic di latta come un campanellino da mucca. Da quel suono, come da un sasso lanciato nello stagno, sono partiti i cerchi: casa, campi, noi.

The Straight Story ha un titolo che sembra un filare tracciato con la riga buona. Lynch, qui, parla chiaro come grano trebbiato: niente pula, solo chicco.

Un vecchietto di nome Alvin Straight — Richard Farnsworth, il volto scolpito a coltello come un ceppo d’inverno — viene a sapere che suo fratello ha avuto un ictus.

I due non si parlano da anni.

Così Alvin aggancia un rimorchio a un John Deere, riempie una tanica rossa come una ciliegia gigante e punta verso il Wisconsin a cocciuti dieci chilometri all’ora con la stessa ostinazione che s’impara d’inverno, quando la neve tesse il suo sermone, e in estate, quando le file dei fagioli sono righe di pazienza sul quaderno del mondo. Controlla l’olio, guarda lontano, e va; ed è proprio andando così che il film apre la sua vera mappa.

Questa è la trama, sì; ma il gusto è più denso: sa di mais dolce in agosto, del burro che ti scivola lungo il polso mentre le cicale suonano in coro come un’orchestra di ferri caldi. Richard Farnsworth fa di Alvin una riga tirata dritta con la matita buona: la calma d’una fila alla frittura del venerdì, dove nessuno spinge perché il lago è grande e il pesce basta per tutti. Il film lascia respirare i silenzi come respira la campagna al tramonto: grilli a punto croce, la zanzariera che schiocca piano, il motore che si spegne e tiene il calore come un pane sotto il canovaccio, mentre le stelle salgono una a una come chicchi nel silo. Ed è proprio da questa lentezza che si estende la geografia del viaggio.

Lynch e Freddie Francis mettono il Midwest nei riquadri come un salmo agricolo senza incenso: stoppie dorate come crini, pioppi in collana a sgranare vento, elevatori del grano che puntellano l’orizzonte come dita di un organo rurale. Non è bello perché posa: è bello perché serve, come un coltellino che taglia lo spago o un secchio che non perde. Sotto, Badalamenti ronza buono come un frigorifero di bottega: un basso continuo che ti tiene compagnia, e da questo ronzio nasce la gente che la strada porta con sé.

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C’è l’uomo che salda l’assale con la cura di chi rimette in sesto un ricordo e ti dice “ridammelo quando hai finito”; un gruppo di ciclisti che sfreccia via come un temporale improvviso; una ragazza incinta che ha bisogno di un pasto caldo e di qualcuno che ascolti senza trasformare tutto in una lezione. Sono i volti delle palestre di paese e dei capannoni delle fiere, che scorgi tra i tavoli pieghevoli e le caraffe trasparenti piene di limonata fresca. Si aiutano e basta, perché il freddo arriva comunque; e da questa normalità, come da una cucitura ben fatta, spunta il tema che conta.

Il perdono, qui, non fa rumore: resta tra le cunette, è un thermos che a mezzogiorno sa già di sera, è il saluto lento alle cassette della posta - ognuna un sopracciglio alzato della strada - ed è il coraggio di guardare la stagione dura e dire: “Eccomi qui”.

Quando Lyle, il fratello perduto, appare — Harry Dean Stanton, stoffa infeltrita e luce di veranda — le parole restano in tasca: bastano i nomi, e quel silenzio che prepara il passo successivo.

Mi ha fatto pensare a noi: temporali che da vicino parevano uragani e, un miglio più in là, diventavano solo pioggia, campi migliori se li lasci bere. Ho sentito i pedaggi minuti dell’orgoglio: quarti di dollaro inghiottiti dalle lavatrici, compleanni passati come treni lenti visti dal ponte, il dire “la cena è pronta” da soli e sentire l’eco stonare sulle piastrelle. La riconciliazione, capisco, è manutenzione: ingrassare gli snodi, tenere gli occhi sul bordo del campo, proseguire. E proprio da questa officina del quotidiano nasce il consiglio.

Se questa è una recensione, ecco la mia moneta lucida sul bancone di un diner: guardalo quando hai qualcosa di pesante da deporre piano; guardalo quando la mappa fra te e chi ami è un nodo di spago bagnato.

È “per tutti” non perché sia piccolo, ma perché è gentile e sa quanto costa la gentilezza; e da questa consapevolezza, come da un motore caldo, parte l’ultima cosa che ho da dirti.

Se questa lettera è il mio John Deere, allora sono già al minimo all’imbocco del tuo vialetto: il triangolo arancione che pesca il lume della veranda come una lucciola testarda. Forse parleremo del meteo - la soia com’è venuta su, la brinata con le suole fredde - o forse lasceremo ai grilli il lavoro di riempire i vuoti. In ogni caso, vorrei provarci. La strada tra noi è vera, e vera è la traccia di ritorno che l’erba non ha ancora chiuso - goccia dopo goccia, come melassa dal mestolo, finché il barattolo smette di suonare vuoto.