Un semplice incidente: quando l’arte non può essere fermata
Un semplice incidente: quando l’arte non può essere fermata
«Per anni mi sono chiesto: "Chi è che fa funzionare il sistema giudiziario [iraniano]?" Che tipo di persone sono? Che cosa pensano? Quali sono le loro motivazioni? Per che cosa vivono esattamente? Poi venendo io stesso interrogato, finendo più volte in tribunale e poi in prigione, ho avuto l'opportunità di osservare questa gente da vicino e provare a trovare una risposta alla mia domanda. Questo film parla delle risposte che ho trovato e del tipo di persone che ho potuto osservare.»
Queste affermazioni appartengono al regista iraniano Mohammad Rasoulof e riguardano il suo ultimo film intitolato Il seme del fico sacro; descrivono perfettamente anche ciò che ha trattato Jafar Panahi nel suo ultimo film Un semplice incidente: il complicato rapporto tra il popolo iraniano e il suoi violenti organi di governo.
Così come la storia politica e personale dei due registi appare praticamente identica: entrambi continuamente processati, arrestati e privati della possibilità di realizzare film.
E anche la reazione dei due a tutto ciò è la stessa: continuare a creare arte, anche se questo vuol dire realizzare film illegalmente e di nascosto. Così nascono i loro film: in un Paese come l’Iran che ne è l’assoluto protagonista ma in cui quegli stessi film non possono essere proiettati.
Un semplice incidente è il quinto film “illegale” realizzato da Panahi dopo la prigionia e la sentenza che gli vietò di lavorare nel mondo del cinema per ben venti anni. Una censura mai accettata dal regista e dal mondo cinefilo, come testimonia la sua vittoria della Palma d'oro al Festival di Cannes di quest’anno.
Così nascono processi produttivi di una scaltrezza assoluta, comicamente e probabilmente molto simili a quelli narrati da Ali Asgari in un’ altra commedia iraniana intitolata Divine comedy e presentato alla Mostra del cinema di Venezia di quest’anno; per questo e altri film, neanche a dirlo, anche Asgari ha ricevuto minacce dal governo.
Ne consegue un panorama filmico interessantissimo, per una cinematografia come quella iraniana assolutamente legata alle complesse dinamiche politiche del proprio Paese, come in tempi non sospetti era accaduto anche in Italia con il Neorealismo.
Non a caso i più grandi punti di riferimento di Panahi sono proprio il Neorealismo italiano e il grande regista iraniano Abbas Kiarostami.
E vediamo chiaramente il cinema di Kiarostami in questo Un semplice incidente: anche solo nei continui spostamenti nel piccolo van bianco su cui si spostano continuamente i protagonisti del film, che ricordano la piccola auto che si perdeva nei grovigli delle colline de Il sapore della ciliegia.
Mentre del neorealismo, che Panahi inizia ad amare dopo aver visto Ladri di Biciclette, rivediamo “il vero” e soprattutto l’umanità di personaggi continuamente in conflitto con la propria morale.
Infatti, Panahi crea una commedia corale ed umana, un palcoscenico dai tratti teatrali in cui l’intera storia è portata avanti da un gruppo di personalità sfaccettate e sempre verosimili.
I protagonisti sono cinque semplici persone che conducono attualmente una vita normale, ma che in passato sono state brutalmente torturate dal governo iraniano, per mano di uno dei loro tanti dipendenti.
Non si sa precisamente cosa abbiano fatto per aver subito una tale punizione, ma non è importante, ciò su cui si concentra il regista è il trauma che un evento del genere ha provocato nelle loro vite, e se questo possa portarli a desiderare di giustiziare un uomo che probabilmente è proprio quello che li aveva torturati.
Nel piccolo van bianco in cui il gruppo girovaga per la città, la presenza ingombrante di quell’uomo appesantisce ogni discorso, ogni ragionamento è mosso continuamente dalla paura e dal triste ricordo, che rende difficile provare a trovare una soluzione realmente umana sul destino di un uomo di cui non è neppure certa l’identità e la colpevolezza.
Tra questi personaggi spiccano le donne, probabilmente le più grandi vittime del sistema iarniano, qui vengono finalmente ascoltate perché hanno innanzitutto il diritto di parlare, di arrabbiarsi, di reagire e prendere possesso della loro vita. Mai ingabbiate, persino quando sono avvolte da un vestito da sposa, simbolo dell’assoggettamento finale al maschile per il regime.
Considerato un argomento centrale così serio ciò che stupisce di più è che con Un semplice incidente Panahi realizza una commedia, genuinamente divertente. Tutto ciò tramite momenti di simpatica assurdità come: la presenza di due sposini all’interno del gruppo, la scena in cui il van finisce in panne, e soprattutto quelle in cui la carta di credito diventa un magico passepartout per risolvere col denaro ogni tipo di problema.
Ma sotto a questo tono leggero, si nasconde sottilmente una profonda critica sistemica: ricordiamo che il film inizia simbolicamente proprio con quel “semplice incidente” che porta all’assisinio di un essere vivente (un cane investito).
Panahi smaschera con la risata un Paese che non permette ad una donna in fin di vita di partorire senza suo marito, che non concede cure mediche se non previa pagamento, ma soprattutto che tiene continuamente imprigionato il proprio popolo, torture o meno che sia.
“Pure da morti questi non fanno altro che creare danni all’umanità” queste sono le affermazioni del più “radicale” del gruppetto messo insieme da Panahi, riguardo al presunto torturatore governativo che hanno rapito. Panahi dà valore alla rabbia dei sopravvissuti alle torture, ma anche a tutte le altre loro emozioni, che li portano a un difficile conflitto morale.
Finché tutta la frustrazione e la rabbia esplodono improvvisamente con la semplicità registica di un piano sequenza straziante e colmo di emozioni, in cui, come il collega Rossoulouf, Panahi mette tutto in prospettiva, condanna sempre il regime e mai il singolo, arrivando quasi a difendere l’indifendibile, dimostrando così il grande amore che prova per il suo popolo.
E tutto si conclude con un finale di rara potenza.
Un secco e terribile rumore metallico si impone all’udito degli spettatori per tutta la durata dei titoli di coda, come era accaduto ai protagonisti durante le loro torture. Alla fine Panahi mostra come il suo popolo sia continuamente in balia della paura per un regime da cui non sembra mai possibile liberarsi del tutto (se si decide come i protago
nisti di non replicarne gli atroci metodi).

