Frankenstein di Guillermo del Toro: un racconto tra la vita e la morte

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“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi...” è l’inizio del famoso monologo di Roy Betty in Blade Runner di Ridley Scott, così un replicante non umano in poche parole ha definito cos’è l’umanità meglio di un qualsiasi uomo.

Ed in tanto cinema e tanta letteratura innumerevoli autori hanno sottolineato la crudeltà dell’umanità, contrapponendola all’estrema e paradossale umanità di creature inumane, come fa anche Guillermo del Toro in questo Frankenstein, e in tutta la sua filmografia precedente.

Quello del regista appare come un lungo cammino cinematografico: partito dall’innamoramento per la trasposizione di Frankenstein del 1931 con Boris Karloff, proseguito con una filmografia in cui aleggia continuamente l’anima del romanzo, e terminato nel momento in cui si è sentito abbastanza pronto, più emotivamente che tecnicamente, a adattare una storia a lui tanto cara.

E guardando il film si percepisce come l’autore conosca la storia originale nei minimi dettagli, come l’abbia letta e riletta fino a leggere al suo interno anche aspetti che non vi sono neppure scritti, fino a riuscire a “piegare” la narrazione alla sua poetica, pur rimanendo fedele all’anima del romanzo di Mary Shelley.

Infatti, l’inizio del film appare inedito nell’importanza data alla cornice narrativa del romanzo, che inizia anch’esso con Frankenstein e la sua creatura approdati sulla nave di un capitano russo nel polo artico. Del Toro fa anche riferimento alla natura epistolare del romanzo, rendendo la narrazione un racconto prima dal punto di vista del dottor Frankenstein e poi della sua creatura.

Dunque, la storia inizia con il racconto dell’infanzia di Victor Frankenstein e del suo rapporto conflittuale con il padre, argomento che del Toro aveva trattato anche nel suo Pinocchio e che diverrà specchio del rapporto tra Frankenstein e la sua creatura.

“Io per te sono osceno, ma per me sono me” sono le parole di un figlio non apprezzato, parole che dice la creatura ma che appartengono anche all’anima del Victor bambino.

Così la creatura diviene proprio come un bambino, amato dal suo creatore per tutte le sue potenzialità, ma che inizia ad essere rinnegato nel momento in cui la sua natura si dimostra differente dalle aspettative del suo padre putativo.

Del Toro ci mostra Frankenstein e la sua creatura come due figure antitetiche. Dove Victor rappresenta tutto quello che c’è di male al mondo: superbia, crudeltà e invidia; la creatura rappresenta tutto ciò che è bene: purezza, gentilezza, meraviglia.

E proprio nella creatura del Toro infonde tutta la sua potenza immaginifica: a partire dal suo aspetto.

Completamente differente dal mostro di Karloff, impressionantemente la scelta di Jacob Elordi per rappresentare un nuovo tipo di creatura è perfetta, cosa su cui devo ammettere di essere stata scettica per lungo tempo.

Il fisico longilineo e oblungo dell’attore dona tutta la mostruosità necessaria alla creatura, che però continua ad avere un fascino magnetico, come del resto hanno sempre avuto “i mostri” dei film del regista.

La creatura, dunque, dimostra con la sua storia tutta la purezza potenziale di una nuova vita, che rischia continuamente di soccombere per via della cattiveria di cui ormai l’uomo ha intriso il mondo.

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Tramite gli occhi dolci e malinconici del “mostro” del Toro ci rivela l’importanza dell’amore in tutte le sue forme: l’amore familiare tra nonno e nipote della famiglia di contadini, l’amore amicale che riesce a donargli l’anziano cieco, e ovviamente il travolgente amore romantico che prova per Elizabeth.

Quando tutto questo viene negato, ovvero quando si vive una vita priva di amore, anche una figura a cui è stata donata la vita eterna non può far altro che desiderare la morte.

Ancora una volta Victor e la creatura si assomigliano e divengono opposti.

Se Victor ha cercato l’amore perso per la morte di sua madre ossessionandosi alla vita e alla ricerca di rianimare un corpo inanime, la sua creatura si ossessiona invece alla morte, sua ultima possibilità di fuggire a tutto quello che ha vissuto. Ma entrambi in qualche modo restano sconfitti.

Così del Toro riesce a centrare il fulcro della narrazione del romanzo, ovvero le ossessioni centrali nella vita di ogni uomo (e creatura): la vita e la morte.

Il tutto è accompagnato da un immenso impianto scenografico e costumistico, che accresce incessantemente la narrazione con dettagli sapientissimi, come i guanti rosso fuoco del dottor Frankenstein che fanno sembrare le sue mani continuamente intrise di sangue.

Mentre la colonna sonora magica e sognante di Alexandre Desplat, invoca tutta la maestosità e la meraviglia di quello che è, in definitiva, il Frankenstein di Guillermo del Toro: una grande fiaba gotica.

Se c’è un difetto fatale nel film di del Toro quello è Netflix, paradossale perché dovremmo ringraziarlo per averci permesso di vedere una tale opera, a differenza di molte case di produzioni Hollywoodiane che continuano a snobbare autori di questo calibro.

Ma il problema più grande del film è Netflix perché un film del genere non può che non essere visto al cinema, e data la sua uscita in pochissime sale selezionate la cosa sarà difficile a molti.

A questo si aggiunge una CGI francamente terribile e posticcia per un prodotto dal budget così elevato ed una narrazione non sempre al massimo, per via di messaggi un po' didascalici e ripetuti più di qualche volta di troppo, forse per la paura della bassa attenzione del tipico pubblico “da piattaforma di streaming”.

Ma comunque, se si considera anche il Pinocchio di qualche anno fa, non si può negare che questo sia il secondo successo artistico dovuto alla collaborazione tra l’autore e la piattaforma.

E certamente, al contrario di come molti dicono, non si è perso assolutamente nulla di una verve artistica gotica e a volte anche squisitamente cruenta di un autore come Guillermo del Toro, che mai ha mitigato la sua visione per via di compromessi, men che meno con questa sua ul

tima meravigliosa opera.